CASSAZIONE PENALE, sez. III, 17 luglio 2024, n. 287041

CASSAZIONE PENALE, sez. III, 17 luglio 2024, n. 287041

In tema di reati contro l’industria e il commercio, la mancata consegna della documentazione che attesta la regolarità dell’apposizione del marchio CE nel corso di un controllo costituisce elemento significativo per ritenere illegittimamente effettuata tale apposizione e integrare il reato di tentativo di frode nell’esercizio del commercio ai sensi dell’art. 515 cod. pen. La configurabilità del reato di frode nell’esercizio del commercio (anche nella forma tentata) legittima la confisca obbligatoria delle merci oggetto dello stesso ai sensi dell’art. 240, secondo comma, n. 2 cod. pen.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ACETO Aldo – Presidente

Dott. GAI Emanuela – Consigliere

Dott. SCARCELLA Alessio – Consigliere

Dott. CORBO Antonio – Consigliere-Rel.

Dott. GALANTI Alberto – Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da

A.A., nato in C il (Omissis)

avverso l’ordinanza del 25 settembre 2023 del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Padova;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Corbo Antonio;

letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Ceniccola Elisabetta, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Con ordinanza emessa in data 25 settembre 2023, e depositata il 28 settembre 2023, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Padova ha disposto, nell’ambito del procedimento penale nei confronti di A.A., all’esito di camera di consiglio partecipata da indagato e persona offesa, l’archiviazione per infondatezza della notizia di reato per l’ipotesi di cui all’art. 474 cod. pen., e per particolare tenuità del fatto per i reati di cui agli art. 515 e 517 cod. pen., in relazione all’attività di commercializzazione di lampade, nonché la confisca delle lampade sottoposte a sequestro.

Il G.i.p. ha: a) escluso la configurabilità del reato di cui all’art. 474 cod. pen., in quanto le lampade sono state commercializzate con il marchio “Mu”, di proprietà della società “Mu B.B. Srls”, e non con il marchio “Poldina”, di cui si assumeva la contraffazione; b) ritenuto integrate sia la fattispecie prevista dall’art. 517 cod. pen., per la produzione delle lampade con tecnica ad imitazione di quelle commercializzate legittimamente con il marchio “Poldina”, idonea a trarre in inganno l’acquirente, sia la fattispecie di cui all’art. 515 cod. pen., per l’apposizione alle predette lampade, abusivamente realizzate, del marchio CE in assenza della “Dichiarazione di conformità”; c) disposto la confisca delle precisate lampade, siccome ritenute illegittimamente realizzate e commercializzate.

2. Ha presentato ricorso per cassazione avverso l’ordinanza indicata in epigrafe A.A., con atto sottoscritto dall’avvocato Vercesi Paolo, articolando tre motivi, preceduti da una premessa sul complessivo svolgimento del procedimento penale e sull’interesse ad impugnare, indicato nelle esigenze di ottenere non solo una pronuncia liberatoria nel merito, ma anche la restituzione dei beni per i quali è stata disposta la confisca.

2.1. Con il primo motivo, si denuncia vizio di motivazione, a norma dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., avendo riguardo al travisamento delle produzioni documentali relative alla “Dichiarazione di conformità” ai fini dell’apposizione del marchio CE.

Si deduce che non è configurabile il reato previsto dall’art 515 cod. pen., per l’abusiva apposizione di marchio CE, perché, come risulta dalla documentazione prodotta al G.i.p., le lampade sequestrate sono assistite da certificato di conformità alla direttiva UE 2014/30 sulla compatibilità elettromagnetica. Si rappresenta che il certificato di conformità è contenuto in un file pdf separato rispetto all’allegato 1, dove è riprodotto il fascicolo tecnico, inviato in occasione del deposito telematico dell’opposizione alla richiesta di archiviazione. Si conclude che, per effetto della mancata valutazione di tale documento, il Giudice è incorso in un travisamento della prova decisivo per ritenere abusivamente applicato il marchio CE e, di conseguenza, integrato il reato di cui all’art. 515 cod. pen.

2.2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione di legge, in relazione all’art. 515 cod. pen., a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., avendo riguardo all’inesistenza di elementi idonei a far ritenere illegittimamente applicato.

Si deduce che, indipendentemente dal certificato di conformità, le lampade sequestrate sono comunque conformi alla direttiva 2014/30/UE, recepita dal D.Lgs. 6 novembre 2007, n. 194, poi modificato dal D.Lgs. 18 maggio 2016, n. 80, come attestato dal fascicolo tecnico in atti, e che, quindi, legittimamente è stato apposto il marchio CE. Si precisa che, a norma degli artt. 9 e 9-bis D.Lgs. n. 194/2007, il fascicolo tecnico contiene una dichiarazione di conformità resa dal “fabbricante”, la quale deve essere contestata da chi ne abbia interesse, e che, nella specie, la presunzione di conformità derivante dalla dichiarazione del “fabbricante” non è inficiata da alcun concreto elemento di prova.

2.3. Con il terzo motivo, si denuncia violazione di legge, in relazione all’art. 517 cod. pen., a norma dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., avendo riguardo alla ritenuta configurabilità del reato di vendita di prodotti industriali con segni mendaci per l’idoneità dei prodotti oggetto di sequestro a trarre in inganno il consumatore.

Si deduce che la mera realizzazione tecnica ad imitazione non rientra tra le condotte punite dall’art. 517 cod. pen., in quanto la norma si riferisce solamente a chi trae in inganno il consumatore tramite l’utilizzo di nomi, marchi o segni distintivi, comportamento di cui lo stesso Giudice ha escluso la sussistenza, non ravvisando alcuna contraffazione di marchi. Si aggiunge che il G.i.p. non aveva nemmeno a disposizione prove idonee per affermare che i prodotti fossero imitazioni di quelli commercializzati con il marchio “Poldina”.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito precisate.

2. Occorre innanzitutto premettere che l’ordinanza di archiviazione per particolare tenuità del fatto emessa, ex art. 411, comma 1 -bis, cod. proc. pen., a seguito di opposizione dell’indagato, è impugnabile con ricorso per cassazione per violazione di legge, ai sensi dell’art. Ili, settimo comma, Cost., avendo carattere decisorio e capacità di incidere, in via definitiva, su situazioni di diritto soggettivo, e non essendo previsto alcun altro mezzo di impugnazione (cfr., per tutte, Sez. 5, n. 36468 del 31/05/2023, Tramo, Rv. 285076-01, e Sez. 3, n. 5454 del 27/10/2022, dep. 2023, Pandolfi, Rv. 284139-01).

Tuttavia, come precisato da alcune decisioni, l’ammissibilità del ricorso per cassazione avverso l’ordinanza di archiviazione per particolare tenuità del fatto emessa, ex art. 411, comma 1 -bis, cod. proc. pen., a seguito di opposizione dell’indagato, è condizionata all’allegazione di un interesse concreto ed attuale alla rimozione del provvedimento (Sez. 6, n. 611 del 22/11/2023, dep. 2024, Conforti, Rv. 285604-01). Questo perché l’effetto tipico ed ordinario derivante dall’ordinanza in questione, costituito dalla sua iscrizione nel certificato del casellario giudiziale, non impone, di per sé, il riconoscimento del diritto di ottenerne il riesame presso una giurisdizione superiore, garantito dalle fonti sovranazionali, e in particolare dall’art. 2 del Protocollo n. 7 alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, esclusivamente in riferimento alle dichiarazioni di colpevolezza od alle condanne (cfr., per tale rilievo, Sez. U, n. 38954 del 30/05/2019, De Martino, Rv. 276463-01).

Nella specie, il ricorso è ammissibile perché è allegata l’esistenza di un interesse concreto ed attuale del ricorrente alla rimozione del provvedimento, ulteriore rispetto a quello di conseguire una pronuncia liberatoria, costituito dall’aspirazione ad ottenere la restituzione dei beni confiscati, precisamente le lampade recanti il marchio “Mu”, precedentemente sequestrate.

3. Manifestamente infondate sono le censure esposte nei primi due motivi, le quali contestano la configurabilità del reato di cui all’art. 515 cod. pen., deducendo che le lampade oggetto di commercializzazione e sequestro sono assistite dalla “Dichiarazione di conformità” necessaria per la legittima apposizione del marchio CE, siccome prodotta in sede di opposizione alla richiesta di archiviazione, e che, in ogni caso, sono in linea con i requisiti richiesti dalla legge per consentire l’apposizione del marchio.

Occorre premettere che, secondo l’orientamento ampiamente consolidato della giurisprudenza, condiviso dal Collegio, integra il reato di tentativo di frode in commercio il detenere, anche presso un esercizio commerciale di distribuzione e vendita all’ingrosso, prodotti privi di marcatura “CE” o con marcatura “CE” contraffatta, in quanto la presenza di tale marcatura è finalizzata ad attestare la conformità del prodotto a standard minimi di qualità e di sicurezza (così, per tutte, Sez. 3, n. 27704 del 21/04/2010, Amato, Rv. 248133-01, e Sez. 5, n. 5068 del 26/10/2012, dep. 2013, Esposito, Rv. 254652-01).

Ciò precisato, come puntualmente indicato nell’ordinan2:a impugnata e non contestato nel ricorso, a norma del Regolamento 2008/765/CE, della direttiva 30/2014/UE e del D.Lgs. n. 196 del 2007, poi modificato dal D.Lgs. n. 80 del 2016, per poter legittimamente apporre il marchio CE alle lampade ci led da tavolo, quali quelle oggetto di sequestro nel presente procedimento, è necessaria la predisposizione di un fascicolo tecnico nel quale sia data dimostrazione dell’esistenza dei requisiti occorrenti per lo specifico prodotto, nonché una “Dichiarazione di conformità” resa dal produttore (o fabbricante), ovvero da un organo notificato competente.

Nella specie, all’atto della perquisizione e del sequestro, l’attuale ricorrente, come indicato nell’ordinanza impugnata, non ha fornito alcuna documentazione in ordine alle autorizzazioni previste dall’Unione Europea per apporre legittimamente alle lampade in marchio CE. E il ricorso, quando contesta il travisamento del fatto per omissione, fa riferimento ad una “Dichiarazione di conformità” del produttore, la società “Mu”, esibita soltanto in sede di opposizione all’archiviazione.

La mancata produzione della “Dichiarazione di conformità” al momento del controllo costituisce elemento significativo per ritenere illegittimamente effettuata l’apposizione del marchio CE.

Invero, si è già affermato in giurisprudenza che, in tema di delitti contro l’industria ed il commercio, la mancata consegna da parte di colui che pone in vendita prodotti che recano il marchio CE, nel corso di un controllo, della documentazione che attesta la regolarità dell’apposizione di tale marchio, integrando l’omissione di una condotta richiesta agli operatori economici, costituisce un comportamento significativo, in assenza di elementi contrari, della irregolarità dell’apposizione, non comportando un’inammissibile inversione dell’onere della prova della sussistenza del reato di tentativo di frode nell’esercizio del commercio di cui all’art. 515 cod. pen. (cosi Sez. 3, n. 50783 del 26/09/2019, Shi Lianfeng, Rv. 277688-01, ha quale segnala che dal Regolamento 2008/765/CE emerge, tra l’altro, che i distributori devono poter dimostrare di aver agito con la dovuta diligenza, verificando la regolarità del suddetto marchio, e devono essere in grado di assistere le autorità nazionali nel reperire la necessaria documentazione dimostrativa).

Né può ritenersi che la presentazione della “Dichiarazione di conformità” in sede di opposizione alla richiesta di archiviazione possa avere efficacia liberatoria. Occorreva infatti fornire elementi dimostrativi della preesistenza della “Dichiarazione di conformità” all’apposizione sulle lampade del marchio CE: nel sistema normativo del Regolamento 2008/765/CE, la preesistenza della “Dichiarazione di conformità” è un requisito formale necessario – una precondizione – per poter apporre il marchio CE; e, dal resto, anche evidenti ragioni logiche suggeriscono che la verifica della presenza delle condizioni necessarie per poter apporre il marchio CE deve precedere l’attività di marcatura.

Di conseguenza, è legittimo concludere che l’apposizione del marchio CE alle lampade da tavolo rinvenute presso la ditta dell’attuale ricorrente è avvenuta illegittimamente, perché in difetto delle condizioni necessarie.

Ne deriva, ulteriormente, che legittimamente l’ordinanza impugnata ha ritenuto che le precisate lampade siano state messe in vendita come cose di qualità diversa da quella dichiarata e che quindi sia integrato il reato di frode nell’esercizio del commercio (o, quanto meno, quello di cui agli artt. 56 e 515 cod. pen.). Le lampade in questione, infatti, sono state immesse in commercio recando, in forza dell’apposizione del marchio CE, la formale assicurazione del a loro conformità ai requisiti essenziali di sicurezza e qualità previsti per la circolazione dei beni nel mercato Europeo, nonostante questa formale assicurazione non potesse essere data, non sussistendo le condizioni per la legittima apposizione del marchio CE.

4. La configurabilità del reato di frode nell’esercizio del commercio, anche nella forma tentata, legittima la confisca delle lampade in sequestro.

Ed invero, la giurisprudenza già in epoca risalente ha rilevato che il reato di frode in commercio implica l’applicazione della confisca obbligatoria a norma dell’art. 240, secondo comma, n. 2, cod. pen. (cfr. Sez. 5, n. 2C15 del 19/11/1992, dep. 1993, Nicastri, Rv. 193210-01).

Stante la legittimità della confisca per il reato di tentativo di frode nell’esercizio del commercio, deve rilevarsi la superfluità dell’esame delle censure formulate con il terzo motivo, concernenti la configurabilità de reato di cui all’art. 517 cod. pen.

5. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché – ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità – al versamento a favore della cassa delle ammende, della somma di Euro tremila, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

Conclusione

Così deciso in Roma, il 5 aprile 2024.

Depositata in Cancelleria il 17 luglio 2024.