CASSAZIONE CIVILE, sez. I, 09 novembre 2023, n. 31170
Il danno da perdita di valore del brevetto dipendente dalla sua contraffazione è suscettibile di essere risarcito e il ristoro patrimoniale ben può essere commisurato alla diminuita o annullata redditività del titolo di privativa, calcolato sulla base dell’ammontare delle royalties non percepite per effetto dell’illecito posto in essere; resta tuttavia escluso che attraverso la liquidazione del danno in questione possa pervenirsi ad alcun effetto duplicativo del ristoro spettante all’avente diritto.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA CIVILE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SCOTTI Umberto Luigi C. G. – Presidente –
Dott. FALABELLA Massimo – rel. Consigliere –
Dott. FIDANZIA Andrea – Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – Consigliere –
Dott. REGGIANI Eleonora – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso iscritto al n. 22974 R.G. anno 2020 proposto da:
Samsung Electronics Co. Ltd e Samsung Electronics Italia Spa rappresentate e difese dagli avvocati Giuseppe Cerulli Irelli, Gabriele Cuonzo, Luca Trevisan e Carlo Ginevra, domiciliate presso il primo;
ricorrenti principali contro
Hop Mobile Srl e Fallimento (Omissis) Srl , rappresentate e difese dagli avvocati Cesare Galli, Pietro Ilardi e Vieri Paoletti, domiciliate presso gli ultimi due;
controricorrenti e ricorrenti incidentali avverso la sentenza n. 4781/2019 depositata il 3 dicembre 2019 della Corte di appello di Milano.
Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 27 settembre 2023 dal consigliere relatore Massimo Falabella.
Svolgimento del processo
1. – In data (Omissis) è stato depositato il brevetto, articolato in sette rivendicazioni, che – secondo quanto chiarito nella sentenza impugnata (la quale riproduce la descrizione del trovato) – insegna a realizzare, nell’ambito dei cellulari c.d. Dual SIM, idonei a supportare più schede telefoniche, un telefonino che comprende in un unico involucro almeno due moduli integrati, ognuno in grado di supportare autonomamente il collegamento con la rete cellulare e di condividere le periferiche necessarie al funzionamento operativo del terminale, oltre che almeno due schede SIM, inserite in rispettivi alloggiamenti ricavati nell’involucro e assegnabili selettivamente ai singoli moduli integrati.
2. – Con ricorso al Tribunale di Milano depositato in data (Omissis) Drin. it Italia Srl , società cessionaria del brevetto, ha agito in via cautelare dolendosi del fatto che Samsung Electronics Italia Srl avesse violato i propri diritti di privativa, importando ufficialmente in Italia il telefono (Omissis), asseritamente realizzato attraverso l’implementazione non autorizzata della tecnologia protetta dal brevetto stesso.
3. – A seguito dell’accoglimento delle domande di inibitoria e di sequestro, Samsung Italia ha convenuto in giudizio Hop Mobile Srl (già Drin. it Italia Srl ) per sentire dichiarata la nullità del brevetto (Omissis) nella titolarità della convenuta e la conseguente non contraffazione che sarebbe stata posta in atto attraverso il modello di telefono cellulare (Omissis).
Hop Mobile si è costituita in giudizio chiedendo il rigetto delle domande avversarie e, in via riconvenzionale, la pronuncia, nei confronti di Samsung Italia, dell’inibitoria, assistita da penale, della condanna al risarcimento del danno e della pubblicazione della sentenza. A seguito dell’assegnazione dei termini di cui all’art. 183, comma 6, c.p.c., la convenuta ha esteso la propria domanda riconvenzionale di contraffazione ai modelli (Omissis), (Omissis) e (Omissis).
Altro giudizio è stato introdotto da Hop Mobile Srl e da (Omissis) Srl , società – poi fallita – che era licenziataria non esclusiva del brevetto a partire dal 2007. L’azione della titolare del brevetto e della licenziataria è stata instaurata non solo nei confronti di Samsung Italia, oltre che di tre rivenditori dei cellulari incorporanti la tecnologia protetta (pure parti del primo giudizio), ma, altresì, nei confronti di Samsung Electronics Co. Ltd e di ulteriori soggetti che risultavano essere coinvolti a vario titolo nella commercializzazione dei prodotti litigiosi. Nel procedimento, in cui si sono costituite le due società Samsung, le attrici hanno domandato l’accertamento dell’interferenza dei richiamati modelli con il loro brevetto, l’accertamento del compimento, in loro danno, di atti di concorrenza sleale per denigrazione, pubblicità ingannevole e scorrettezza professionale e le pronunce aventi ad oggetto l’inibitoria alla prosecuzione dell’attività illecita (con la penale di cui all’art. 124, comma 3, c.p.i., ossia D.Lgs. n. 30 del 2005), l’ordine di ritiro dal commercio e l’assegnazione in proprietà dei telefoni in contraffazione, oltre che la condanna delle convenute al risarcimento dei danni e la pubblicazione della sentenza su quotidiani, a spese delle soccombenti.
Il secondo giudizio, in cui è stata disposta la chiamata in causa di numerosi altri soggetti, è stato riunito al primo.
In questa complessa vicenda processuale sono state espletate tre diverse consulenze tecniche brevettuali e una consulenza tecnica contabile; è stata pure ordinata a Samsung Italia l’esibizione dei documenti di acquisto e di vendita dei telefoni cellulari sopra indicati. In seguito, il Giudice istruttore ha disposto la separazione delle cause riguardanti soggetti diversi da Hop Mobile, Fallimento (Omissis), Samsung Electronics Italia e Samsung Electronics.
Il 14 giugno 2016 il Tribunale di Milano ha pronunciato sentenza con cui: ha rigettato la domanda di nullità del brevetto (Omissis) nella titolarità di Hop Mobile; ha accertato il compimento, da parte di Hop Mobile e di (Omissis), di condotte di concorrenza sleale per denigrazione; ha condannato conseguentemente Hop Mobile al risarcimento del danno, liquidato in Euro 50.000,00, oltre interessi, in favore delle due società Samsung; ha accertato e dichiarato la contraffazione, da parte di queste ultime due, del brevetto oggetto di causa, attuato attraverso la produzione e commercializzazione di dispositivi che sfruttavano la privativa; ha condannato Samsung Electronics Italia e Samsung Electronics al risarcimento del danno determinato in Euro 1.863.436,99, a titolo di lucro cessante, e in Euro 168.557,74, a titolo di danno emergente, in favore del Fallimento di (Omissis); ha rigettato la domanda di concorrenza sleale ex art. 2598, nn. 2 e 3 c.c. proposta da Hop Mobile e dal Fallimento (Omissis); ha disposto l’assegnazione in proprietà, in favore delle attrici in contraffazione, dei cellulari oggetto di sequestro; ha disposto la pubblicazione dell’intestazione del dispositivo della sentenza su di un quotidiano, a spese delle due società Samsung.
4. – Avverso questa sentenza sono stati proposti due appelli: l’uno da parte di Samsung Electronics Italia e Samsung Electronics, l’altro da parte di Hop Mobile e del Fallimento (Omissis). Le impugnazioni sono state riunite.
Dopo l’esperimento delle prove testimoniali richieste dalle parti, la Corte di appello di Milano ha pronunciato la sentenza, pubblicata il dicembre 2019, con cui ha rideterminato il risarcimento dei danni conseguenti all’accertata contraffazione del brevetto nei seguenti importi: Euro 2.529.303,82, oltre rivalutazione e interessi, a favore del Fallimento (Omissis); Euro 275.000,00, oltre rivalutazione monetaria e interessi, in favore di Hop Mobile.
5. – La sentenza della Corte lombarda è stata fatta oggetto di due ricorsi per cassazione. Quello principale, delle società Samsung, consta di venti motivi. Quello incidentale, svolto nel controricorso di Hop Mobile e del Fallimento (Omissis), di otto. Sono state depositate memorie
Motivi della decisione
1. – Il primo motivo di ricorso principale denuncia la violazione o falsa applicazione dell’art. 52 c.p.i. Il Giudice di appello avrebbe determinato l’oggetto del brevetto senza tener conto di quanto effettivamente rivendicato e, in particolare, avrebbe interpretato la rivendicazione del brevetto disinteressandosi del chiaro significato tecnico dell’espressione “assegnabili selettivamente” e facendo illegittimamente ricorso agli insegnamenti ritenuti “implicitamente” inclusi nel brevetto. Assumono le istanti che nel corso del giudizio la suddetta locuzione non è stata interpretata letteralmente e coerentemente con le indicazioni del brevetto, come imposto dall’art. 52 c.p.i., ma in un significato nuovo: quello di consentire la possibilità di mutare o incrociare, senza spostamenti manuali, le assegnazioni delle diverse SIM riferite ai diversi moduli presenti nel telefono (operazione che, secondo i consulenti tecnici, non era consentita nei telefoni realizzati anteriormente al deposito del brevetto). Si rileva, in proposito, che la sentenza di appello, nonostante esplicita sollecitazione da parte delle odierne ricorrenti, non aveva operato alcuna verifica circa il significato tecnico attribuibile all’espressione “assegnazione selettiva” per verificare se la stessa presentasse ambiguità tali da legittimare una integrazione in via esegetica e per appurare, in caso di risposta affermativa, se una tale integrazione fosse legittima alla luce di quanto poteva ricavarsi in modo chiaro e inequivoco, oltre che esplicito, dalla descrizione del brevetto. La censura verte sull’art. 52 c.p.i. e sul rilievo, svolto dalle istanti anche in appello, per cui detta norma non consente all’interprete di sostituirsi all’inventore nella dichiarazione di volontà tendente all’identificazione della protezione brevettuale.
Ora, la Corte di appello ha evidenziato come la consulenza espletata dal CTU A.A. non fosse carente di informazioni sufficienti per consentire a un tecnico del ramo di comprendere le intenzioni dell’inventore e mettere in atto l’invenzione: ha precisato che nella relazione del nominato esperto erano elencati gli scopi da raggiungere e le informazioni tecniche “del tutto sufficienti per comprendere l’invenzione senza ambiguità” (sentenza impugnata, pag. 26); ha rimarcato che nella suddetta consulenza era riportato un passaggio della descrizione, incentrato sull’assegnazione delle schede SIM ai moduli secondo un programma contenuto nella memoria del processore e sull’esistenza di un dispositivo capace di eseguire il collegamento elettrico richiesto dal programma, che consentiva al tecnico del ramo di individuare i mezzi tecnici con cui attuare l’invenzione (sentenza, pag. 27). Indicazioni non divergenti la Corte territoriale ha tratto da altro elaborato peritale, predisposto dal CTU B.B.: talchè la stessa Corte ha concluso nel senso che tutti i consulenti tecnici avevano interpretato le rivendicazioni del brevetto nel senso che “ogni SIM è assegnabile selettivamente a diversi moduli ricetrasmittenti, nel senso che una prima SIM è assegnabile selettivamente a diversi moduli ricetrasmittenti, ossia che una prima SIM possa essere abbinata al secondo modulo integrato, ma sia anche possibile invertire o incrociare questo collegamento elettrico, senza impedirne il funzionamento e senza dover sostituire manualmente le SIM nei rispettivi alloggiamenti” (sentenza, pag. ult. cit.).
Appare allora evidente che la Corte territoriale, con l’ausilio dei CTU, ha interpretato la rivendicazione brevettuale avvalendosi della descrizione, sul presupposto che il testo della rivendicazione fosse non chiaro ed esaustivo: ciò in conformità del principio per cui la descrizione e i disegni allegati alla domanda di concessione di un brevetto industriale, pur non potendo in alcun modo determinare l’ambito della tutela concessa dal brevetto laddove questo sia del tutto generico con riferimento all’indicazione dei limiti della protezione, possono essere utilizzati al fine di chiarire e interpretare la rivendicazione, in particolare nei casi in cui tali strumenti, nel circostanziare la struttura di una certa caratteristica del trovato, consentono di puntualizzare, in funzione limitativa, l’oggetto della rivendicazione stessa (Cass. 1 febbraio 2023, n. 3013; cfr. pure Cass. 4 settembre 2019, n. 22079).
Nell’indicata prospettiva, integra una questione di fatto, che sfugge al sindacato di legittimità, il tema relativo all’asserita ambiguità dell’espressione “assegnazioni selettive” (all’esistenza, cioè, di una ambiguità, nel testo della rivendicazione, tale da giustificare l’operazione interpretativa basata sul contenuto della descrizione brevettuale). Quanto, poi, al rilievo secondo cui la Corte di appello non avrebbe potuto valorizzare quanto desunto solo “implicitamente” dalla detta descrizione, esso si fonda su di un passaggio della relazione del CTU B.B. che è genericamente riferito all'”insegnamento tecnico fornito dal brevetto” (cfr. ricorso, pagg. 16 e 18) e in cui, oltretutto, si fa menzione delle rivendicazioni, e non della descrizione: il dato non pare quindi al Collegio significativo; risulta significativo, invece, che il Giudice del gravame abbia conferito rilievo, come si è visto, al fatto che la descrizione del brevetto, in base alla relazione del CTU A.A. (giudicata sostanzialmente conforme, nelle conclusioni, a quella del CTU B.B.), non fosse carente di informazioni sufficienti a un tecnico del ramo per comprendere le intenzioni dell’inventore e per mettere in atto l’invenzione: condizione, questa, che soddisfa appieno il precetto dell’art. 51, comma 2, c.p.i., secondo cui l’invenzione deve essere descritta in modo sufficientemente chiaro e completo perchè ogni persona esperta del ramo possa attuarla.
Il motivo è dunque nel complesso infondato.
2. – Col secondo motivo del ricorso delle società Samsung si oppone la nullità della sentenza in ragione della violazione della Cost., artt. 111 e 132 c.p.c. per irriducibile e intrinseca contraddittorietà e quindi sostanziale carenza di motivazione. Si lamenta che la sentenza, dopo aver interpretato la rivendicazione di (Omissis) sulla base di quanto implicitamente ricavabile dal brevetto, abbia basato la decisione su affermazioni del CTU A.A. che erano inconciliabili con un tale accertamento. Le istanti deducono, in particolare, che le relazioni del CTU A.A. e del CTU B.B. sarebbero tra loro in contraddizione, visto che nella prima risulterebbe affermato che la descrizione del brevetto conterrebbe una “elencazione”, quanto agli “scopi da raggiungere” e alle “informazioni tecniche”, di contro assente nella seconda.
Il motivo non ha fondamento.
Si osserva, al riguardo, che, anche a voler prescindere da quanto in precedenza rilevato in ordine alla reale portata della locuzione, estratta dall’elaborato del CTU B.B., per cui “è indiscutibile che l’insegnamento tecnico fornito dal brevetto Drin. it include implicitamente la possibilità di assegnare ogni SIM a diversi moduli ricetrasmittenti”, la motivazione della Corte, per quanto qui interessa, ha il suo punto qualificante nell’affermazione per cui le due relazioni sono da ritenere convergenti nell’interpretazione del brevetto con riguardo al tema della cosiddetta assegnazione selettiva, e segnatamente quanto alla possibilità di invertire o incrociare il collegamento elettrico, senza impedirne il funzionamento e senza dover sostituire manualmente le SIM (pag. 27 dell’impugnata sentenza). Dopodichè, va rammentato che è oggi denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sè, purchè il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, n. 8054). E va dato atto che l’argomentare della Corte di appello, la quale è pervenuta alla conclusione esposta sulla base di un apprezzamento delle risultanze peritali non sindacabile, qui, nel suo nucleo fattuale, non si sostanzia per certo in quelle gravi carenze del percorso argomentativo della sentenza che danno vita al “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” o che integrano gli estremi della “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”: le uniche figure che assumano rilievo a fronte della denunciata contraddittorietà della pronuncia (citt. Cass. Sez. U. 7 aprile 2014, nn. 8053 e 8054).
3. – Il terzo mezzo del ricorso principale oppone la violazione e falsa applicazione degli artt. 48 e 51 c.p.i.. Sul presupposto che il cuore del brevetto era stato individuato nella possibilità di “invertire o incrociare” le assegnazioni delle SIM “senza impedirne il funzionamento e senza dover sostituire manualmente le SIM nei rispettivi alloggiamenti” si censura la sentenza impugnata per aver riconosciuto validità, sotto il profilo del valore inventivo, al titolo di proprietà industriale conferendo rilievo a un problema tecnico che era stato riformulato ex post e a vantaggi non menzionati nel testo brevettuale. Si menziona, al riguardo, un passaggio della relazione del CTU B.B. in cui lo stesso avrebbe rilevato che il problema tecnico affrontato dal brevetto poteva essere “riformulato come quello di fornire una maggiore flessibilità e facilità d’uso dei telefoni con più SIM senza richiedere spostamenti manuali delle SIM”. Si rileva che il problema tecnico non era stato menzionato nel testo del brevetto, ma era stato enunciato dal nominato CTU, e che (Omissis) nemmeno indicava le utilità che il brevetto stesso poteva procurare.
Col quarto motivo del ricorso principale – che può esaminarsi congiuntamente al terzo per ragioni di connessione – si denuncia la nullità della sentenza per violazione della Cost., artt. 111 e 132 c.p.c.. La motivazione della sentenza sarebbe solo apparente con riferimento alla censurata mancata individuazione, nel brevetto, del problema tecnico, del gradiente di attività inventiva e delle utilità perseguite. Richiamando il terzo motivo di appello, con cui si era dedotta la nullità del brevetto per la mancata individuazione del problema tecnico risolto e dei vantaggi ottenuti attraverso l’invenzione, viene in sintesi rilevato che la Corte di appello, dopo aver richiamato la relazione del CTU B.B., così riformulando il problema tecnico, avrebbe fatto riferimento alla relazione del CTU A.A., che aveva rinvenuto il problema tecnico risolto da (Omissis) nella descrizione del brevetto.
I due motivi non possono essere accolti.
E’ senz’altro vero, in linea di principio, che ai fini del riconoscimento di una valida privativa è necessaria la descrizione chiara e completa, consistente nell’indicazione del problema tecnico rispetto al quale il trovato si pone come soluzione, del gradiente di attività inventiva o comunque dell’utilità che il trovato medesimo persegue rispetto alla tecnica nota, la cui mancanza non può essere colmata ex post, dalla parte o dal consulente tecnico, a seguito della contestazione sulla validità del brevetto (così Cass. 4 novembre 2009, n. 23414). Tale insegnamento, con particolare riguardo alla descrizione del problema tecnico, risponde a un’elementare esigenza: almeno di regola (più comunemente per i brevetti che riguardano i composti chimici che per i brevetti della meccanica), in tanto può dirsi che l’invenzione costituisca nuova e originale risposta a un problema tecnico, in quanto sia possibile comprendere quale sia quel problema. Questo non significa, però, che il brevetto per invenzione sia nullo per insufficiente descrizione tutte le volte in cui l’esperto del ramo si mostri in grado, avvalendosi di una normale competenza professionale, di meglio esplicitare le indicazioni contenute nel brevetto; deve ritenersi piuttosto interdetta qualsiasi operazione di vera e propria integrazione della descrizione, tale da esorbitare dalla ricognizione di quanto sia dato di ricavare dal testo brevettuale sulla base della conoscenze generali del settore.
Ciò posto, e riprendendo quanto già detto in precedenza, la sentenza impugnata è chiara nel rilevare, sulla scorta della relazione del CTU A.A., che lo scopo dell’invenzione, risultante del testo brevettuale, risultava essere quello di fornire un terminale telefonico che consentisse a un utente la gestione del collegamento a più di una linea telefonica contemporaneamente in modo indipendente e senza la necessità di particolari prestazioni della rete o delle reti di cui si richiede il collegamento; in tal modo – ha precisato la Corte territoriale, “il tecnico del ramo riceve una chiara indicazione sulla problematica tecnica che l’invenzione cerca di affrontare e di risolvere” (pagg. 26 s. del provvedimento impugnato). Il Giudice distrettuale ha, dunque, non solo spiegato che dal testo del brevetto il tecnico del ramo avrebbe potuto ricavare il problema tecnico rispetto al quale il trovato si poneva come soluzione, ma ha pure implicitamente escluso che il detto problema fosse stato oggetto di una formulazione ex post da parte di uno dei consulenti tecnici: chè quest’ultima evenienza risulta essere manifestamente inconciliabile con quanto dalla Corte affermato in ordine alle risultanze desumibili dal brevetto stesso.
Non si ravvisa, conseguentemente, la contraddizione evocata col quarto motivo di ricorso. Del resto, la valorizzazione di una formulazione ex post del brevetto poggia su un passaggio della motivazione della sentenza – in cui la Corte di merito dà atto che il CTU B.B. aveva incidentalmente “individuato il problema tecnico affrontato dal brevetto” (pag. 32 della pronuncia) – che non è speso per dar ragione della descrizione del trovato brevettuale, ma che è invece inserito in ben altro contesto argomentativo, dedicato all’altezza inventiva dello stesso. E comunque, l’affermazione secondo cui il CTU aveva “individuato il problema tecnico” non implica affatto che detto problema fosse frutto di una manipolazione del testo brevettuale, piuttosto che della lettura ragionata di questo da parte dell’esperto del settore. Nè vi è modo di affermare che la sentenza impugnata si mostri contraddittoria nel recepire, con riguardo all’individuazione del problema da risolvere, indicazioni, tratte dai due elaborati, tra loro confliggenti, visto che la Corte di appello ha all’opposto rilevato come le due relazioni tecniche fornissero indicazioni convergenti, e tale dato non è stato efficacemente contestato.
4. – Il quinto motivo del ricorso proposto da Samsung Electronics Italia e Samsung Electronics oppone la violazione e falsa applicazione degli artt. 48 e 51 c.p.i. Si deduce che la sentenza impugnata avrebbe fatto ricorso, in modo erroneo, all’istituto giuridico della “invenzione di problema”. Il mezzo, al pari dei due che seguono, investe la decisione assunta dalla Corte di appello con riguardo al tema dell’altezza inventiva del trovato. Viene richiamata la fattispecie della detta “invenzione di problema”, e cioè di quella invenzione caratterizzata dal fatto che il requisito dell’attività inventiva risiede non nella soluzione di un problema tecnico, ma nell’essersi posti un certo problema tecnico, al quale poi l’invenzione fornisca una soluzione ovvia sulla base dello stato della tecnica. Si osserva che ai fini della configurazione dell'”invenzione di problema” è necessario che il problema tecnico sia descritto in modo chiaro e non ambiguo nella domanda depositata: condizione, questa, che sarebbe insussistente nel caso in esame.
Col sesto motivo del ricorso principale la sentenza impugnata e censurata per violazione della Cost., artt. 111 e 132 c.p.c. Si lamenta l’inesistenza della motivazione, giacchè la Corte di appello avrebbe omesso ogni esame in ordine alla dedotta insussistenza delle condizioni che consentivano di fare applicazione dell'”invenzione di problema”. Secondo le ricorrenti sarebbe mancata, nella sentenza impugnata, “qualsivoglia motivazione in merito al quinto motivo di appello” delle due società Samsung; in particolare, la Corte di appello non si sarebbe preoccupata di valutare se ricorressero, nella fattispecie, le condizioni per accordare tutela all'”invenzione di problema”.
Il settimo motivo del ricorso in esame prospetta la nullità della sentenza e la violazione della Cost., artt. 111 e 132 c.p.c. Vi sarebbe irriducibile contraddizione tra le argomentazioni spese con riguardo all’inventività del brevetto, affermata facendo prima ricorso alla nozione di “invenzione di problema” e poi all’altezza inventiva della soluzione rivendicata. Si deduce che il CTU B.B. aveva affermato l’altezza inventiva di (Omissis) sulla base dell’indicata erronea applicazione della nozione di “invenzione di problema”, mentre il CTU A.A. si era espresso sulla questione relativa all’altezza inventiva avendo riguardo all’inventività non più del problema, ma della sua soluzione.
Anche tali motivi possono trattarsi congiuntamente.
La questione circa l’altezza inventiva del trovato quale “invenzione di problema” viene dai ricorrenti desunta da due passaggi della motivazione: quello in cui la Corte di appello assume che l’altezza inventiva “sussiste ove possa ritenersi che l’esperto del ramo non sarebbe stato indirizzato in modo evidente alla soluzione del problema tecnico (e qui all’enunciazione di tale problema) da suggerimenti presenti nello stato della tecnica” (sentenza, pag. 31); quello ove si richiama la consulenza tecnica del CTU B.B., il quale aveva evidenziato che “non vi è nulla nell’arte nota che possa portare la persona esperta del ramo a pensare a tale problema e tantomeno alla sua soluzione”, giacchè i documenti relativi ad altre anteriorità “indirizzano problemi del tutto diversi” (sentenza, pag. 32).
Nell’occuparsi dell’altezza inventiva, la Corte di appello ha tuttavia fatto menzione anche della consulenza dell’ing. A.A., il quale aveva rilevato che nell’arte nota mancava qualsiasi insegnamento che suggerisse una possibile assegnazione tra SIM e moduli: secondo il detto esperto il tecnico del ramo non avrebbe avuto nessuno spunto “per prevedere un’assegnazione selettiva ai due o più moduli di ricetrasmissione se non con una conoscenza a posteriori del contenuto del brevetto Drin. it” (sentenza, pagg. 32 s.). La Corte di appello ha riprodotto, dunque, le conclusioni cui era pervenuto il detto consulente, il quale aveva reputato “la soluzione rivendicata al punto 1 del brevetto Drin. it del tutto originale” (sentenza impugnata, pag. 34).
Ora, come osservato dalle due ricorrenti, gli accertamenti dei due consulenti non sono per certo sovrapponibili. Non paiono tuttavia nemmeno in contraddizione. Infatti, nella relazione del CTU B.B. viene rilevata l’originalità sia del problema tecnico che della sua soluzione; nella relazione del CTU A.A. si dà evidenza all’originalità della sola soluzione. Poichè dalla sentenza impugnata – che ha recepito le due risultanze peritali per la parte che qui interessa – non risulta in alcun modo che la soluzione del problema sia stata considerata banale, il richiamo al tema dell'”invenzione di problema” non appare pertinente.
In tal senso, i tre motivi di censura in esame mancano di aderenza alla (complessa) ratio decidendi della pronuncia impugnata. Come è noto, in tema di ricorso per cassazione, è necessario che venga contestata specificamente la ratio decidendi posta a fondamento della pronuncia impugnata (Cass. 10 agosto 2017, n. 19989; cfr. pure Cass. 3 luglio 2020, n. 13735, Cass. 7 settembre 2017, n. 20910 e Cass. 7 novembre 2005, n. 21490, secondo cui la proposizione, con il ricorso per cassazione, di censure prive di specifiche attinenze al decisum della sentenza impugnata è assimilabile alla mancata enunciazione dei motivi richiesti dall’art. 366 n. 4 c.p.c., con conseguente inammissibilità del ricorso, rilevabile anche d’ufficio).
5. – L’ottavo motivo, svolto in via subordinata, denuncia l’ulteriore violazione e falsa applicazione dell’art. 48 c.p.i. La censura aggredisce la sentenza nella parte in cui viene ivi affermata l’inventività non più del problema, ma della soluzione rivendicata da (Omissis); si deduce che la Corte di merito, pur citando il problem solution approach, non ha applicato tale criterio, ma ha fatto proprie le conclusioni del CTU A.A., la cui premessa logica era rappresentata dal rilievo per cui l’esame in punto di altezza inventiva potrebbe essere meno rigoroso quando alla data di deposito della domanda il settore tecnico dell’invenzione sia particolarmente affollato. Gli istanti rilevano che la sentenza impugnata, dopo aver correttamente menzionato il problem solution approach, si sarebbe “poi totalmente e contraddittoriamente disinteressata di tale test nel richiamare i passaggi della CTU A.A.”. Inoltre, la consulenza del CTU A.A. evidenzierebbe un grave errore nel ritenere che assumesse rilievo, ai fini del giudizio sull’altezza inventiva, la circostanza per cui al momento del deposito della domanda il settore tecnico dell’invenzione risultava essere “particolarmente affollato”.
Il motivo è infondato.
L’impiego, nell’apprezzamento dell’altezza inventiva del brevetto del criterio basato sul problem solution approach, che si struttura in tre scansioni (individuazione dello stato dell’arte più prossimo; determinazione del problema tecnico da risolvere; valutazione se l’invenzione per la quale si chiede il brevetto, alla luce dello stato dell’arte e del problema tecnico da risolvere, risulterebbe ovvia ad un soggetto esperto) è diffuso nella giurisprudenza di merito e si conforma a un orientamento consolidato del Board of Appeal dell’EPO. Tale criterio non discende tuttavia da una fonte normativa e men che meno dall’art. 48 c.p.i., di cui le ricorrenti prospettano la violazione e falsa applicazione; nè questa Corte si è mai espressa nel senso che la mancata applicazione del problem solution approach, o una non corretta applicazione dei passaggi logici di tale metodo di valutazione, possa integrare un vizio della decisione deducibile in sede di legittimità a norma dell’art. 360 c.p.c., n. 3; la violazione o la non corretta applicazione delle linee guida elaborate dall’EPO nel disciplinare la propria attività, in particolare quelle inerenti il metodo del problem solution approach, può venire in rilievo solo ove si risolva, sul piano del diritto nazionale, in una violazione o falsa applicazione del cit. art. 48 (sul punto cfr. Cass. 16 marzo 2022, n. 8584, in motivazione).
Il rilievo, poi, formulato dal CTU A.A., e incentrato sulla correlazione, che lo stesso esperto avrebbe ravvisato, tra l’affollamento del settore tecnico in cui si colloca l’invenzione brevettata e il valore che alla stessa potrebbe annettersi sul piano dell’altezza inventiva, rimane estraneo alla decisione della Corte di appello: onde la relativa censura è inammissibile perchè carente del requisito della riferibilità alla pronuncia impugnata (cfr.: Cass. 24 febbraio 2020, n. 4905; Cass. 18 febbraio 2011, n. 4036; Cass. 3 agosto 2007, n. 17125).
6. – Il nono motivo del ricorso principale lamenta la violazione o falsa applicazione dell’art. 125, comma 1, c.p.i. Si deduce che la sentenza impugnata avrebbe proceduto al riconoscimento della tutela aquiliana del credito in violazione dei criteri normativi che presiedono al riconoscimento della stessa. Il mezzo di censura, insieme ai restanti motivi delle ricorrenti, concerne il tema della quantificazione del danno.
Con tale motivo si fa questione, in particolare, del risarcimento cui sono state condannate le odierne ricorrenti con riferimento al contratto concluso tra (Omissis) e la società Bardi Lab, la quale si era impegnata all’acquisto di 12.500 cellulari. Il Tribunale ha liquidato il danno da lucro cessante prendendo in considerazione il periodo intercorso tra novembre 2007 e gennaio 2008 rilevando, tra l’altro, che il contratto non aveva avuto regolare esecuzione da febbraio a novembre 2007; la Corte di merito ha invece preso in considerazione il più esteso arco temporale di un anno (febbraio 2007 – gennaio 2008), osservando che l’accordo non prevedeva “una cadenza mensile degli acquisti”, sicchè Bardi Lab avrebbe potuto, secondo le sue strategie commerciali, decidere come ripartire, nel corso dell’anno di durata del contratto, l’acquisizione dei cellulari che la controparte doveva venderle. Il Giudice distrettuale ha osservato che l’irruzione sul mercato dei telefoni Samsung nel corso dell’anno 2008, preceduta dalla campagna pubblicitaria che l’annunciava, aveva reso l’esecuzione del contratto non più conveniente, determinandone la risoluzione; ha quindi calcolato le unità non acquistate da Bardi Lab rispetto a quanto previsto contrattualmente, indicandole in 10.470, e ha quantificato il fatturato perduto da (Omissis) con riferimento al contratto in questione, determinandolo in Euro 3.998.900,00. Questa somma, una volta detratti i costi incrementali della nominata controricorrente, è stata ridotta ad Euro 2.255.152,00 (pagg. 49 ss. della sentenza). Essendo stato stimato in tale misura il lucro cessante, la Corte di merito ha poi escluso potesse essere riconosciuto alcunchè a titolo di retroversione degli utili, in quanto l’importo calcolato per tale voce (Euro 1.863.432,34) era inferiore all’ammontare del lucro cessante (pagg. 72 ss. della pronuncia).
Le ricorrenti deducono che il lucro cessante maturato con riferimento al rapporto contrattuale intercorso tra (Omissis) e Bardi Lab si raccorderebbe a una fattispecie di lesione aquiliana del credito. In conseguenza, il risarcimento del danno andrebbe riconosciuto in presenza di precise condizioni: l’esistenza di un evento che determini l’estinzione del diritto del creditore; la natura definitiva e irreparabile della perdita subita; il discendere l’estinzione del diritto di credito da un fatto del terzo, a questo imputabile. Lamentano le società istanti che la Corte di appello avrebbe completamente omesso di effettuare verifiche in tal senso.
Il motivo non è fondato.
E’ ben noto il principio, del tutto consolidato nella giurisprudenza dell’ultimo mezzo secolo, per cui il risarcimento per fatto illecito deve ammettersi anche con riguardo ai diritti di credito, poichè il requisito dell’ingiustizia del danno, nel senso che il fatto produttivo del danno debba ledere una posizione soggettiva garantita dall’ordinamento nella forma di diritto soggettivo, sussiste anche nel caso di lesione di diritti relativi (Cass. Sez. U. 30 marzo 1972, n. 1008). Si è insegnato, difatti, che non può assumersi quale criterio determinante per ammettere o negare la tutela aquiliana, la distinzione tra diritti assoluti e diritti relativi (Cass. Sez. U. 26 gennaio 1971, n. 174).
Nondimeno, la normativa sui brevetti “riconosce diritti reali assoluti su beni immateriali” (Cass. 7 novembre 1996, n. 9728; più di recente, in tema, Cass. 2 dicembre 2016, n. 24658).
Pur non potendo, quindi, certamente escludersi, in presenza di un illecito sfruttamento del brevetto, l’ammissibilità dell’azione aquiliana diretta a far valere, nei confronti del contraffattore, la lesione del diritto di credito insorgente da un contratto concluso tra il danneggiato e il terzo, il titolare del brevetto o il licenziatario dello stesso hanno pieno titolo ad avvalersi dei rimedi specificamente approntati per la tutela giurisdizionale dei diritti di proprietà industriale, quali diritti assoluti, onde reagire all’aggressione del diritto di brevetto in cui si concreta l’azione del contraffattore. E’ qui appena il caso di rilevare che il licenziatario ripete la propria legittimazione all’esperimento di una tale azione dal fatto che egli risente gli effetti negativi della contraffazione (cfr. Cass. 4 luglio 2014, n. 15350).
Ora, è incontestabile che gli odierni controricorrenti abbiano agito giudizialmente facendo valere la contraffazione di una privativa brevettuale e quindi la lesione di un diritto assoluto. E proprio nella prospettiva della tutela del detto diritto assoluto i Giudici di merito hanno del resto fatto applicazione della norma speciale dell’art. 125 c.p.i., che disciplina il risarcimento del danno e la restituzione dei profitti dell’autore della violazione dei diritti di proprietà industriale.
Sempre col nono motivo le ricorrenti hanno osservato che l’assenza di convenienza economica non giustifica, in sè, la risoluzione del contratto e hanno censurato il passaggio della motivazione della sentenza di appello in cui si sosterrebbe il contrario.
Il rilievo non appare però decisivo: il Giudice distrettuale ha infatti quantificato il danno da lucro cessante, che qui interessa, avendo riguardo al periodo in cui il contratto ha avuto esecuzione (da inizio febbraio 2007 a fine gennaio 2008: il punto è riconosciuto dalle ricorrenti principali a pag. 10 della memoria conclusiva); pur citando la risoluzione, la Corte di merito non ha affermato che il contratto si sarebbe sciolto con effetto retroattivo: onde l’affermazione pare riferita o al mancato rinnovo del contratto (in quanto di durata annuale) o a una risoluzione con effetto ex nunc occorsa in un periodo successivo del rapporto (in quanto di durata superiore all’anno, o in quanto rinnovato alla scadenza annuale). Come è evidente, un mancato rinnovo alla scadenza annuale o una risoluzione non retroattiva che fosse comunque occorsa dopo la fine di gennaio del 2008 non spiegherebbe incidenza sulla quantificazione del risarcimento, che è stata per l’appunto operata tenendo conto nel periodo tra febbraio 2007 e gennaio 2008.
Le società istanti hanno dedotto, poi, che (Omissis) era licenziataria non esclusiva, onde i suoi distributori non potevano coltivare alcuna aspettativa di esclusiva nella commercializzazione di cellulari muniti della tecnologia protetta dal brevetto nella titolarità di Hop Mobile.
A ciò è agevole replicare che nella fattispecie non rileva l’aspettativa frustrata indicata dalle ricorrenti, quanto, piuttosto, il danno determinato dalla concreta presenza, sul mercato, di telefoni attraverso cui la privativa brevettuale risultava contraffatta. E l’accertamento svolto dalla Corte di merito si fonda, coerentemente, sulle conseguenze patrimoniali determinate da questa precisa evenienza.
7. – Col decimo mezzo la pronuncia impugnata viene censurata per violazione o falsa applicazione degli artt. 125, comma 1, c.p.i., 2043, 2056, 1223 c.c., 40 e 41 c.p. Ci si duole che la Corte di appello abbia omesso di applicare i criteri normativi che devono informare l’accertamento del nesso di causalità. Deducono in particolare le ricorrenti che la Corte di appello non avrebbe considerato talune circostanze rilevanti sul piano eziologico, alcune delle quali pure valorizzate dal Tribunale: già dal 2007 sarebbero state presenti sul mercato, a prezzi inferiori, alternative rispetto ai cellulari Dual SIM di (Omissis); le controparti non avrebbero avuto la capacità di soddisfare la domanda; rispetto all’imponente quantitativo di cellulari oggetto del contratto di distribuzione concluso con Bardi Lab, solo 2.630 dispositivi sarebbero stati oggetto di fornitura; il contratto in questione avrebbe avuto esecuzione, per fatto imputabile a (Omissis) – che era sprovvista delle autorizzazioni per l’immissione in commercio dei telefoni – per soli tre mesi; nel 2007 Bardi Lab avrebbe “acquistato il marchio Telit che fra le altre cose aveva nel proprio portafoglio il telefono (Omissis)” il quale consentiva il contemporaneo uso di due SIM. L’undicesimo motivo del ricorso principale oppone la nullità della sentenza per violazione della Cost., artt. 111 e 132 c.p.c. La motivazione della pronuncia risulterebbe insanabilmente illogica, contraddittoria, perplessa e obiettivamente incomprensibile, avendo “ritenuto di imputare la risoluzione del contratto concluso con la società Bardi Lab alla pretesa contraffazione di Samsung sulla base della pubblicità dei prodotti Samsung (pubblicità che si riconosce avere ad oggetto caratteristiche non coperte dal brevetto)” di una deposizione “relativa a prodotti non importati nè venduti da Samsung sul mercato italiano”. Si imputa, in sintesi, alla Corte di appello di aver per un verso riconosciuto che la pubblicità dei prodotti Samsung riguardava caratteristiche non coperte dalla privativa brevettuale – vale a dire l’uso, da parte dei dispositivi, di due SIM contemporaneamente attive – e di aver per altro verso affermato che alla data di mancata completa esecuzione o di risoluzione del contratto “sarebbe stato notorio (evidentemente in base a tale medesima pubblicità) che i prodotti Samsung avrebbero presentato proprio il plus tecnico oggetto del brevetto Hop Mobile, tanto che ciò avrebbe indotto Bardi Lab a risolvere il contratto di distribuzione in vigore con (Omissis)”.
Col dodicesimo motivo del ricorso principale si oppone la violazione del giudicato interno con conseguente nullità della sentenza. Viene lamentato che la Corte di appello abbia liquidato l’utile parametrandolo all’intero periodo di durata del contratto con Bardi Lab, anzichè all’ultimo trimestre, come invece aveva stabilito il Tribunale con statuizione non impugnata dalle parti. Si assume che, in assenza dell’impugnazione dell’affermazione, contenuta nella sentenza di primo grado, secondo cui il volume della fornitura da prendere in considerazione ai fini della quantificazione del danno ammontava a 3.125 cellulari, la Corte di merito non avrebbe potuto commisurare il danno a un numero di dispositivi superiore.
Il dodicesimo motivo appare fondato.
Come in precedenza rammentato, la Corte di appello ha ritenuto che il contratto tra (Omissis) e Bardi Lab non contenesse “alcuna previsione di una cadenza mensile degli acquisti”, onde il risarcimento del danno non andava circoscritto, a suo avviso, alla frazione dei cellulari (sul totale di 12.500), che sarebbe stato possibile vendere negli ultimi tre mesi del rapporto; in tal senso, è stato riformato il capo della sentenza di primo grado con cui l’utile del contraffattore è stato calcolato avendo riguardo al numero di 3.125 dispositivi: e cioè al numero dei cellulari che avrebbero dovuto costituire oggetto della cessione nel periodo tra novembre 2007 e gennaio 2008, pari a un quarto del totale (cfr. pronuncia di appello, pag. 50).
Si legge nella sentenza impugnata che (Omissis) aveva lamentato, con l’appello, che ai fini del risarcimento del danno l’utile (della licenziataria) era stato ridotto in quanto il Tribunale aveva “(ingiustificatamente) considerato un utile mensile limitato ai soli tre mesi del 2007-2008 (novembre e dicembre 2007 – gennaio 2008)” (pag. 51 della pronuncia).
Le ricorrenti hanno contrastato tale affermazione deducendo che l’appello avversario non recava alcuna impugnazione della statuizione di primo grado con cui era stato stabilito che il volume della fornitura interessata all’illecito contraffattivo era pari a 3.125 telefonini e hanno menzionato, al riguardo, le pagine da 66 a 69 di tale atto impugnatorio.
Contrariamente a quanto asserito dai due controricorrenti, il motivo di ricorso per cassazione è ammissibile, non potendo di certo onerarsi le società Samsung della trascrizione dell’intero atto di appello (al fine di dar conto che quanto dedotto in ordine alla mancata proposizione del motivo di gravame trovi positivo riscontro). Deve invece ritenersi sufficiente il richiamo, di fatto operato dalle nominate società, a quella parte dell’atto di gravame che investe il tema dell’utile del contraffattore con riguardo al contratto concluso con Bardi Lab: tema che per l’appunto è sviluppato alle pagg. 66 ss. della citazione di appello degli odierni controricorrenti.
L’esame dell’atto, reso possibile dalla natura processuale del vizio denunciato, persuade, poi, della fondatezza della doglianza. Infatti, gli attuali controricorrenti nulla risultano aver specificamente opposto alla decisione del Tribunale, che aveva liquidato il danno relativo al contratto con Bardi Lab prendendo in considerazione il numero di 3.125 dispositivi, piuttosto che quello di 12.500
E’ del resto significativo, come esposto dalle società Samsung, che gli stessi controricorrenti abbiano riconosciuto nella comparsa di risposta all’appello di controparte che sull’operazione posta in essere dal Tribunale, consistente nel quantificare il risarcimento prendendo in considerazione il volume di vendita costituito dai 3.125 cellulari, fosse caduto il giudicato interno (cfr. ricorso per cassazione, pag. 63, ove il richiamo a pag. 111 della nominata comparsa di appello). Vero è che i controricorrenti hanno spiegato che la deduzione era finalizzata alla replica del motivo di appello con cui le società Samsung avevano sostenuto che il numero dei telefoni cellulari da prendere in considerazione doveva essere addirittura ridotto a 1.125 (cfr. controricorso, pag. 57); è altrettanto vero, però, che, nella specifica contingenza che qui interessa, Hop Mobile e il Fallimento (Omissis) hanno inteso sottolineare proprio l’irretrattabilità della decisione assunta, sul punto, dal Tribunale: il che è ovviamente inconciliabile con la contestazione della medesima.
E’ da rimarcare, infine, che l’esistenza di un motivo di appello atto a provocare la richiamata statuizione della Corte di merito non può desumersi dalla presenza, nell’atto di gravame (segnatamente, a pag. 69 dello stesso), di conclusioni con cui è stata domandata la riforma della sentenza di primo grado in punto di quantum. Tali conclusioni sono evidentemente da raccordare alle censure diverse da quella relativa al numero dei dispositivi telefonici da prendere in considerazione ai fini della liquidazione del danno effettivamente presenti nell’atto di appello.
Ebbene, nel giudizio di appello – che non è un novum iudicium – la cognizione del giudice resta circoscritta alle questioni dedotte dall’appellante attraverso specifici motivi e tale specificità esige che alle argomentazioni svolte nella sentenza impugnata vengano contrapposte quelle dell’appellante, volte ad incrinare il fondamento logico-giuridico delle prime, non essendo le statuizioni di una sentenza separabili dalle argomentazioni che le sorreggono (per tutte: Cass. 27 settembre 2016, n. 18932; Cass. 13 aprile 2010, n. 8771; Cass. 18 aprile 2007, n. 9244; Cass. 24 novembre 2005, n. 24817). Come è noto, infatti, l’impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l’utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata (Cass. Sez. U. 16 novembre 2017, n. 27199; in senso conforme, di recente, Cass. Sez. U. 13 dicembre 2022, n. 36481).
Deve dunque ritenersi affetta da ultrapetizione una sentenza di appello, quale quella qui in esame, che prenda in esame una questione non dedotta specificamente dall’appellante, a nulla rilevando che quest’ultimo chieda la riforma della pronuncia per profili diversi, che non presentino attinenza alla nominata questione.
Il dodicesimo motivo è dunque fondato e ciò determina l’assorbimento del decimo e dell’undicesimo.
8. – Il tredicesimo motivo del ricorso delle società Samsung oppone la violazione o falsa applicazione degli art. 2043 c.c. e 125 c.p.i.. A giudizio delle istanti la sentenza impugnata ha affermato la responsabilità per le importazioni parallele in violazione dei presupposti previsti dalla legge per la responsabilità da fatto illecito, non ricorrendo i presupposti della responsabilità per fatto del terzo. Si lamenta che le ricorrenti siano state ritenute responsabili per l’importazione e la vendita in Italia di telefonini contraffatti da parte di soggetti non appartenenti al proprio gruppo, i quali li avevano acquistati all’estero, dove erano legittimamente commercializzati.
Col quattordicesimo motivo viene denunciata la nullità della sentenza per violazione della Cost., artt. 111 e 132 c.p.c. Risulterebbe meramente apparente, oltre che illogica e incomprensibile, la motivazione della sentenza, che ha fatto derivare una responsabilità per le importazioni parallele da inesistenti atti di “vendita diretta” di Samsung Electronics in Italia. Viene dedotto che altro è la contraffazione diretta, altro il coinvolgimento di Samsung Electronics in importazioni parallele.
Il quindicesimo motivo del ricorso principale denuncia la nullità della sentenza per violazione della Cost., artt. 111 e 132 c.p.c., stante la motivazione apparente, insanabilmente illogica e obiettivamente incomprensibile. La censura investe la sentenza impugnata nella parte in cui ha fatto discendere la pretesa responsabilità di Samsung per le importazioni parallele da una garanzia per vizi di progettazione e fabbricazione in lingua anche italiana. Con riguardo alla detta garanzia si osserva che, venendo in questione un prodotto venduto da Samsung all’interno dell’Unione Europea, i consumatori dovevano essere posti nelle condizioni di far valere la medesima nei diversi paesi dell’Unione: di qui l’esigenza che la garanzia venisse redatta in tutte le principali lingue dell’Unione e con l’indicazione delle varie filiali locali. Le ricorrenti contestano, altresì, che la propria responsabilità per le importazioni parallele potesse desumersi da due dichiarazioni di Samsung Electronics Italia con cui la stessa si era impegnata a tenere indenne la destinataria della missiva con riferimento a una serie di modelli cellulari non ricadenti nel brevetto (Omissis).
Col sedicesimo motivo si lamenta la violazione o falsa applicazione degli artt. 125 c.p.i., 2043 c.c., 66, comma 1 e comma 2 bis, c.p.i. Ci si duole che la sentenza impugnata abbia affermato la responsabilità di Samsung per il fatto del terzo in violazione delle disposizioni circa l’efficacia territoriale dei titoli brevettuali e dei presupposti previsti dalla legge per il concorso nella contraffazione. A detta delle ricorrenti, l’affermazione, contenuta nella sentenza, secondo cui l’obbligatoria e routinaria predisposizione in più lingue – tra cui l’italiano – per l’esplicitazione della garanzia del produttore, comporterebbe la consapevolezza della destinazione finale del prodotto al mercato italiano, implica il riconoscimento di una responsabilità oggettiva che si pone in contrasto con le norme sopra indicate.
Il diciassettesimo mezzo delle ricorrenti principali oppone la violazione e falsa applicazione degli artt. 125 c.p.i., 2043, 2056, 1223, 40 e 41 c.p. La sentenza impugnata avrebbe violato le norme in tema di accertamento del nesso causale con riferimento alle importazioni parallele. Si deduce che l’accertamento della Corte di appello avrebbe dovuto estendersi alla verifica dell’esistenza del detto nesso di causa: la stessa avrebbe dovuto appurare se, in assenza della garanzia, il fenomeno delle importazioni parallele si sarebbe o meno verificato.
I cinque motivi di ricorso in esame possono trattarsi congiuntamente in quanto tutti vertenti sull’importazione (e sulla successiva vendita), in Italia, di 15.782 telefoni cellulari non commercializzati da Samsung Electronics Italia, ma da altri rivenditori
Con riferimento alla responsabilità della società coreana Samsung Electronics, la Corte di appello ha osservato: che questa aveva venduto anche direttamente in Italia, a grossisti, i telefoni oggetto di contraffazione; che entrambe le società oggi ricorrenti si erano assunte le responsabilità della commercializzazione per aver agito in stretto coordinamento tra di loro (Samsung Electronics consentendo a Samsung Electronics Italia il rilascio di garanzia per i vizi materiali di progettazione e fabbricazione, presente in tutte le confezioni di cellulari vendute in Italia e importate da altri Stati, l’altra dichiarandosi garante e fornendo in concreto indicazioni circa gli indirizzi e i contatti telefonici utili per far valere la garanzia); che Samsung Electronics ben avrebbe potuto esimersi dalla garanzia per quei prodotti da essa non direttamente commercializzati; che era stato prodotto in giudizio il documento contenente le due dichiarazioni sopra richiamate con cui Samsung Electronics Italia aveva assicurato a una società terza che una serie di modelli cellulari da essa prodotti e commercializzati potevano essere importati sul mercato italiano in quanto non interferenti con il brevetto oggetto di causa, impegnandosi, altresì, a manlevare la detta società dalla responsabilità risarcitoria per violazione del brevetto; che da tale dichiarazione si desumeva che lo scarico di responsabilità per le importazioni parallele era operante solo nei confronti di specifici soggetti sulla base di apposite dichiarazioni di Samsung, ma non costituiva regola generale (sentenza impugnata, pagg. 46 ss.).
La responsabilità delle società Samsung è stata dunque ancorata a una condotta precisa, consistente nella prestazione di una garanzia (rilasciata dalla società italiana col consenso di quella coreana) che era dovuta dal solo venditore ex art. 130 cod. cons. (D.Lgs. n. 206 del 2005) e che Samsung Electronics Italia, siccome non venditrice, non era tenuta ad offrire: garanzia operante in Italia con riguardo ai telefoni provenienti da importazioni parallele. Le altre due circostanze menzionate dalla Corte di merito (la rivendita diretta dei cellulari contraffatti e la manleva offerta da Samsung Electronics Italia) assurgono a semplici elementi di supporto del convincimento della Corte di appello (quali indici del reale portato del concorso delle ricorrenti nell’attività di importazione), onde il quattordicesimo motivo, con cui si sostiene che la vendita da parte di Samsung Electronics ai grossisti italiani integrerebbe una contraffazione diretta, si rivela inammissibile, in quanto non coglie la reale consistenza di quanto affermato sul punto dal Giudice distrettuale.
Secondo la Corte di appello le odierne ricorrenti principali rispondono di una condotta agevolatrice dell’importazione dei prodotti contraffatti: ad esse non è attribuita una responsabilità per fatto del terzo. Nell’affermare che entrambe le ricorrenti “si sono assunte la responsabilità della commercializzazione” (sentenza impugnata, pag. 46), la Corte di appello ha evidentemente inteso dar rilievo alla consapevole facilitazione prestata dalle predette a che i cellulari in contraffazione importati fossero venduti in Italia alle stesse condizioni degli altri prodotti Samsung.
Le ricorrenti oppongono, come si è visto, che i telefoni in contraffazione oggetto di importazione parallela sarebbero potuti giungere in Italia anche in mancanza della garanzia del produttore. E tuttavia, quel che rileva è che la Corte di appello abbia individuato, in concreto, una condotta agevolatrice del fatto dannoso, assumendo, implicitamente, che la prestazione della garanzia abbia concorso alla massiccia penetrazione sul mercato italiano dei cellulari con cui era stata violata la privativa. Tale ricostruzione, sovrapponibile, in definitiva a quella del Giudice di primo grado, sfugge a censura, in quanto inerisce a un profilo fattuale.
Non coglie nel segno quanto dedotto dalle ricorrenti in ordine al fatto che agli acquirenti dei telefoni Samsung dovesse essere assicurato di giovarsi della garanzia in tutti i paesi dell’Unione Europea, compresa l’Italia. Sul punto parte ricorrente menziona la decisione della Commissione n. 78/922/EEC del 23 ottobre 1978 nel caso IV/1.576-Zanussi, in cui è stato rimarcato che la pratica di non estendere la garanzia alle importazioni parallele può costituire un ostacolo rilevante allo sviluppo del commercio all’interno della Comunità e deve essere proibito. Si osserva, però, che nella fattispecie viene in questione l’obbligo di rispettare una privativa intellettuale e sul punto, come rammenta la parte controricorrente, va tenuto presente che l’art. 36 TFUE (Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea) prevede che i divieti delle restrizioni posti dagli artt. 34 e 35 dello stesso Trattato lasciano impregiudicati i divieti o le restrizioni giustificati da motivi di tutela della proprietà industriale.
Inammissibile è, per finire, la censura vertente sulla asserita mancata consapevolezza della destinazione del prodotto sul mercato italiano. L’assunto secondo cui la valorizzazione dell’obbligatoria e notoriamente routinaria predisposizione in più lingue – compreso l’italiano – della garanzia del produttore” implicherebbe l’affermazione di una responsabilità oggettiva si risolve nella confutazione di un accertamento di fatto incentrato, come si è visto, sulla consapevole agevolazione della commercializzazione del prodotto nel nostro paese.
In conclusione, il tredicesimo e il quindicesimo motivo vanno respinti, mentre il quattordicesimo, il sedicesimo e il diciassettesimo devono dichiararsi inammissibili.
9. – Col diciottesimo motivo è denunciata la violazione o falsa applicazione degli artt. 125 c.p.i., 2043 e 1226 c.c. Rilevano le ricorrenti che la Corte di appello avrebbe quantificato equitativamente un danno, consistente nella sostanziale vanificazione di pretesi investimenti pubblicitari, liquidato nella somma complessiva di Euro 261.880,00, pur ammettendo che dalle molte fatture prodotte non emergeva l’oggetto pubblicizzato. Viene osservato che era preciso onere di (Omissis) dimostrare se e quali investimenti fossero effettivamente ed univocamente destinati a promuovere la vendita dei telefoni coperti da brevetto. In assenza di tale riscontro – si deduce – non avrebbe potuto ricorrersi alla liquidazione equitativa.
Il motivo è infondato
La censura investe la decisione impugnata nella parte (pagg. 64 s.) in cui, nel quantificare il danno per le spese pubblicitarie affrontate da (Omissis) e Hop Mobile, la Corte di appello ha ritenuto di determinare il detto pregiudizio patrimoniale in via equitativa, nella frazione di un terzo di quanto documentato dalle fatture prodotte: l’accesso al criterio di cui all’art. 1226 c.c. è stato spiegato, nella sentenza impugnata, attribuendo rilievo alla circostanza per cui in una parte di dette fatture non era precisato a cosa si riferisse il servizio pubblicitario reso.
Se è innegabilmente vero che l’esercizio del potere discrezionale di liquidare il danno in via equitativa, conferito al giudice dagli artt. 1226 e 2056 c.c., presuppone già assolto l’onere della parte di dimostrare la sussistenza del danno (Cass. 22 febbraio 2018, n. 4310; Cass. 12 ottobre 2011, n. 20990), l’assunto per cui l’esistenza del pregiudizio risulterebbe nella fattispecie indimostrato è smentito dalla sentenza impugnata: questa ha infatti tratto positivo riscontro di esborsi per spese pubblicitarie riferite ai telefoni che incorporavano la tecnologia protetta, anche se non ne ha potuto quantificare l’esatto ammontare per l’incompletezza delle evidenze documentali in suo possesso.
10. – Il diciannovesimo motivo prospetta la violazione o falsa applicazione degli artt. 125 c.p.i., 2043, 2056, 1223 1226 e 1227 c.c.. Si contesta la liquidazione del danno da perdita di valore del brevetto, siccome giuridicamente inesistente e costituente, comunque, indebita duplicazione di altre voci di danno. I ricorrenti lamentano essere stato liquidato in favore di Hop Mobile il danno emergente da pretesa perdita di valore del brevetto, e ciò sia per il periodo coincidente con la pretesa contraffazione, sia per il periodo successivo alla cessazione della stessa. Si osserva che dalla contraffazione del brevetto non deriva normalmente un danno emergente e che il lucro cessante ricomprende la perdita di capacità del brevetto di produrre reddito.
Col ventesimo motivo del ricorso principale, svolto in via subordinata, si denuncia la violazione o falsa applicazione degli artt. 125 c.p.i., 2043 c.c., 2056, 1223, 1226, 1227 c.c., 40 e 41 c.p.. Assumono le ricorrenti che la Corte di appello avrebbe violato le norme circa l’accertamento del nesso causale con riferimento al preteso danno da perdita di valore del brevetto. Ci si duole che la Corte di merito abbia individuato nella pretesa contraffazione la causa esclusiva del preteso danno al brevetto, senza valutare le circostanze allegate dalle ricorrenti nel corso del giudizio e senza stabilire in che misura dovesse, se del caso, quantificarsi l’apporto causale delle stesse.
Questi due motivi presentano ragioni di connessione col quarto e col quinto motivo del ricorso incidentale, che conviene esaminare congiuntamente a quelli appena indicati.
Col quarto motivo del ricorso incidentale è sollevata una censura di violazione o falsa applicazione dell’art. 125, commi 1 e 2, c.p.i. Secondo chi impugna, la Corte di appello, nel liquidare il danno da perdita di valore del brevetto, avrebbe impropriamente applicato il criterio della royalty ragionevole, il quale è contemplato per la liquidazione equitativa del lucro cessante, e non invece per la quantificazione del danno emergente, cui andrebbe pacificamente ricondotto il danno in questione. Il danno da perdita di valore del brevetto determinato, in tal modo, nella somma di Euro 250.000,00, risulterebbe poi difforme da quello stimato dal consulente tecnico contabile, che lo aveva quantificato in Euro 1.602.110,00.
Col quinto motivo del ricorso incidentale si oppone la nullità della sentenza per violazione della Cost., artt. 111 e 132 c.p.c.. Ci si duole che la Corte distrettuale abbia mancato di motivare la propria scelta di discostarsi dalle conclusioni del CTU contabile nella quantificazione del danno emergente consistente nella perdita di valore del brevetto.
Sul tema della perdita di valore del brevetto si osserva quanto segue.
La Corte di merito, andando in ciò in contrario avviso rispetto alla sentenza di primo grado, ha ritenuto dovesse liquidarsi, in favore di Hop Mobile, il danno per perdita di valore del brevetto; il danno è stato così commisurato alle royalties perdute dalla detta società per effetto della condotta delle società Samsung in relazione ai 14.211 cellulari commercializzati in Italia (pagg. 65 s. della sentenza impugnata).
In termini generali, non può escludersi la risarcibilità del danno consistente nella perdita di valore del diritto di proprietà industriale.
Che il brevetto abbia un proprio valore intrinseco è confermato, banalmente, dall’art. 2424 c.c. il quale include i diritti di brevetto industriale tra i valori delle immobilizzazioni da includere nello stato patrimoniale delle società per azioni.
Sul piano risarcitorio, il danno emergente conseguente alla contraffazione brevettuale ricomprende, poi, qualunque perdita dei valori economici esistenti nel patrimonio del titolare della privativa prima della consumazione dell’illecito.
Viene allora in considerazione anche quel danno che, come è stato osservato in dottrina, è direttamente incidente sulla stessa integrità della posizione di esclusiva: posizione che, per effetto della contraffazione, può essere compromessa anche irreversibilmente mercè la duratura riduzione della possibilità di sfruttamento del brevetto. Assume così rilievo l’annacquamento (dilution) del pregio che è possibile associare al diritto, il quale si traduce in una corrispondente contrazione del suo valore patrimoniale: valore che, come sottolineato sempre in dottrina, può leggersi quale chance di una proficua collocazione del diritto stesso sul mercato.
In siffatta prospettiva la perdita di valore del brevetto può apprezzarsi avendo riguardo alla potenziale redditività dello stesso: onde è consentito attribuire rilievo alle royalties che il titolare può ritrarre nel tempo dal diritto di privativa, le quali sono da apprezzare proprio quale elemento indicatore della nominata redditività. In tal senso, la decisione impugnata non si espone a censura.
E’ peraltro evidente che l’apprezzamento del danno in questione non possa portare ad alcuna forma di overcompensation; e così, il riconoscimento della perdita di valore della privativa individuato come nel caso di specie sulla base della royalty ragionevole percettibile dal titolare del brevetto in un dato periodo non può aggiungersi al lucro cessante risentito in quello stesso arco di tempo dal predetto titolare o dal suo licenziatario: e ciò in quanto i due valori descrivono, se pure in modo diverso, il medesimo fenomeno, connotato dal fatto che, nel periodo dato, la privativa, per effetto della contraffazione, non è stata in grado di assicurare i profitti che in assenza di quella condotta illecita avrebbe procurato. La distinzione tra le due fattispecie sta nel fatto che il mancato guadagno nel secondo caso rileva in sè, mentre nel primo assume importanza quale elemento rivelatore dell’erosione del valore del diritto: tale distinzione non autorizza, tuttavia, la liquidazione delle due voci di danno, giacchè il mancato guadagno che è conseguenza immediata e diretta dell’illecito (art. 1223 c.c.) – e che può assurgere, come si è detto, a indicatore della lamentata dilution – è unico. Allo stesso modo, deve negarsi che il danno da perdita di valore del brevetto correlato alla redditività di questo possa cumularsi con gli utili da restituire di cui all’art. 125, comma 3, c.p.i. Infatti, gli utili conseguiti dal contraffattore spettano nella misura in cui siano superiori al risarcimento del lucro cessante (onde non si aggiungono a tale risarcimento): sarebbe in conseguenza contraddittorio ammettere che il titolare del diritto, il quale non può ottenere, in aggiunta alla restituzione degli utili del contraffattore, il risarcimento del lucro cessante consistente nella mancata riscossione di royalties, sia in grado di raggiungere quel risultato pratico invocando il danno da perdita di valore del brevetto. Gioca, anche qui, l’esigenza di evitare meccanismi di sovracompensazione del danno. Un problema di sommatoria dei diversi rimedi (risarcimento del danno da lucro cessante o retroversione degli utili, da un lato, e risarcimento del danno incidente sulla redditività del brevetto, dall’altro) non si pone, invece, quando gli stessi operano su segmenti temporali non coincidenti.
In conclusione, il danno da perdita di valore del brevetto dipendente dalla sua contraffazione è suscettibile di essere risarcito e il ristoro patrimoniale ben può essere commisurato alla diminuita o annullata redditività del titolo di privativa, calcolato sulla base dell’ammontare delle royalties non percepite per effetto dell’illecito posto in essere; resta tuttavia escluso che attraverso la liquidazione del danno in questione possa pervenirsi ad alcun effetto duplicativo del ristoro spettante all’avente diritto.
Passando, ora, alla sorte dei singoli mezzi di censura che interessano il tema del danno da perdita di valore del brevetto, e cominciando dal ventesimo motivo del ricorso principale, relativo al nesso eziologico tra la contraffazione e il danno da perdita di valore del brevetto, deve rilevarsi che la Corte di merito ha inteso far proprie le risultanze della consulenza tecnica contabile, la quale ha dato conto di “un potenziale sfruttamento del brevetto – seppure in maniere decrescente per effetto dell’obsolescenza della tecnologia – fino al 2012” (sentenza, pag. 66). Ciò detto, le doglianze sollevate investono un accertamento fattuale: accertamento che si fonda su di una indagine tecnica che mostra di raccordare il valore intrinseco del brevetto alla sua concreta utilizzabilità in rapporto all’avanzamento tecnologico. Il nominato accertamento non è sindacabile nella presente sede, nè i ricorrenti hanno sollevato una censura motivazionale con riguardo al tema che qui interessa. Il motivo in esame va allora dichiarato inammissibile.
E’ inammissibile anche il quinto motivo del ricorso incidentale. Il Fallimento (Omissis) e Hop Mobile sostengono che la Corte di appello avrebbe indebitamente trascurato il metodo di calcolo indicato dal CTU; essi non forniscono tuttavia alcuna esplicitazione delle ragioni che avrebbero portato il consulente a determinare il danno che qui interessa in Euro 1.602.110,00; sotto tale profilo il mezzo è carente di autosufficienza, non avendo il ricorrente assolto all’onere di indicare compiutamente gli accertamenti e le risultanze peritali da cui si sia discostato (Cass. 12 febbraio 2014, n. 3224).
Il quarto motivo del ricorso incidentale, con cui si è sostenuto doversi escludere in radice che il danno da perdita di valore del brevetto possa essere liquidato tenendo conto dell’ammontare dei canoni di licenza di cui l’avente diritto sia stato privato, nel tempo, per effetto della condotta illecita del contraffattore, va respinto per le ragioni che si sono sopra esposte.
Resta da dire del diciannovesimo motivo del ricorso principale. Esso è infondato nella parte in cui nega, in termini assoluti, la configurabilità del danno da perdita di valore del brevetto; spetterà peraltro al Giudice del rinvio, sulla base del definitivo accertamento di quanto compete alla titolare del diritto e alla licenziataria, e tenendo conto del principio sopra enunciato, verificare, in concreto, se residui spazio per il risarcimento del danno commisurato alla royalty individuata dalla Corte di appello. Il diciannovesimo motivo del ricorso principale è dunque in parte da respingere e in parte da dichiarare assorbito.
11. – Col primo motivo del ricorso incidentale si oppone la violazione o falsa applicazione dell’art. 125 c.p.i. La sentenza impugnata sarebbe censurabile avendo mancato di operare la liquidazione del lucro cessante per i periodi di rinnovo automatico del contratto concluso con Bardi Lab. Si richiama, in proposito, il passaggio della motivazione in cui la Corte di merito ha rilevato che il detto contratto scadeva il 1 febbraio 2008 “fatti salvi possibili rinnovi”.
Il mezzo è inammissibile.
I ricorrenti per incidente non fanno questione di un rinnovo che si sarebbe prodotto, ma della semplice eventualità, riconosciuta dalla Corte di appello, di futuri rinnovi.
L’esistenza di una clausola contrattuale di tacito rinnovo non lascia però presumere ex se che il rapporto si protragga oltre la scadenza: andrebbe verificato se, nella contingenza, un rinnovo del contratto, in assenza della contraffazione, fosse da ritenere prevedibile, così da giustificare il ristoro del pregiudizio patrimoniale correlato alla vicenda estintiva occorsa. I ricorrenti incidentali non forniscono tuttavia indicazioni quanto alle condizioni che avrebbero giustificato il rinnovo, nè chiariscono quale fosse il preciso contenuto della clausola che lo disciplinava.
Nel corpo del motivo si fa pure questione di un danno da perdita di chance: il tema non risulta però affrontato nella sentenza impugnata e i ricorrenti non deducono che esso venne trattato nel corso del giudizio di merito; va quindi fatta applicazione della regola per cui ove, con il ricorso per cassazione, siano prospettate questioni di cui non vi sia cenno nella sentenza impugnata, è onere della parte ricorrente, al fine di evitarne una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegare l’avvenuta loro deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche, in ossequio al principio di autosufficienza del ricorso stesso, di indicare in quale specifico atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Suprema Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione prima di esaminare il merito della suddetta questione (Cass. 9 agosto 2018, n. 20694; Cass. 13 giugno 2018, n. 15430). Del resto, il creditore che voglia ottenere i danni derivanti dalla perdita di chance ha l’onere di provare, anche se solo in modo presuntivo o secondo un calcolo di probabilità, la realizzazione in concreto di alcuni dei presupposti per il raggiungimento del risultato sperato ed impedito dalla condotta illecita della quale il danno risarcibile deve essere conseguenza immediata e diretta (Cass. 14 marzo 2017, n. 6488; Cass. 12 agosto 2008, n. 21544). Ed è, questo, un profilo di cui doveva essere investito il Giudice del merito, non scrutinabile, come è evidente, in questa sede.
12. – Il secondo motivo di ricorso incidentale oppone la violazione e falsa applicazione dell’art. 125, comma 3, c.p.i.. Ci si duole che la Corte di appello non abbia accordato alcun risarcimento del danno in favore di Hop Mobile, titolare del brevetto (Omissis), nonostante la norma sopra indicata riconosca “in ogni caso” al titolare del brevetto il diritto alla retroversione degli utili.
Il motivo è inammissibile.
La censura investe il tema della spettanza, alla titolare del brevetto, della retroversione degli utili, che il Tribunale aveva riconosciuto in favore del solo Fallimento (Omissis); la Corte di appello, riscontrato che il lucro cessante liquidato risultava superiore agli utili del contraffattore, ha accordato al Fallimento, in applicazione dell’art. 125, comma 3, c.p.i., il risarcimento commisurato al mancato guadagno, nulla riconoscendo a titolo di retroversione degli utili (sentenza impugnata, pag. 74); la condanna non ha favorito Hop Mobile che si è vista riconoscere il solo risarcimento per la perdita di valore del brevetto, che qui non interessa.
Rammentano i ricorrenti per incidente che in appello essi avevano dedotto che “anche Hop Mobile aveva (ed ha) un proprio titolo autonomo per ricevere almeno una parte degli utili dei contraffattori, di cui la sentenza ha disposto la retroversione, in solido con il licenziatario (Omissis): cosicchè la condanna risarcitoria andava pronunciata a favore di entrambi” (cfr. controricorso, pag. 80).
Se ne desume che la questione posta dal secondo motivo presenti carattere di novità, in quanto riflette una domanda di maggiorazione del risarcimento che gli odierni istanti non avevano svolto nel giudizio di merito. I medesimi, in base a quanto da loro stesso esposto, non ebbero infatti a richiedere che la condanna alla retroversione dell’utile a beneficio di Hop Mobile si aggiungesse a quella disposta in favore del Fallimento: domandarono piuttosto che la statuizione avente ad oggetto la somma riconosciuta sulla base della richiamata tecnica liquidatoria fosse pronunciata in favore sia della licenziataria che della titolare del brevetto, senza maggiorazione alcuna.
Mette conto di aggiungere che, in termini generali, quanto sostenuto dagli odierni ricorrenti incidentali non può essere comunque condiviso.
Il rimedio della retroversione degli utili, previsto dall’art. 125, comma 3, c.p.i. – e nell’art. 13.2 della dir. 2004/48/CE (c.d. direttiva enforcement), ove la misura è però specificamente contemplata in relazione alle ipotesi di violazione inconsapevole dell’altrui diritto – obbedisce alla finalità di dissuadere dall’attività contraffattiva l’operatore economico che sia più efficiente del titolare della privativa: dell’imprenditore che, cioè, si mostri in grado di ritrarre dallo sfruttamento del brevetto un utile superiore rispetto a quello che dalla privativa può conseguire l’avente diritto, evidentemente in possesso di una minore capacità di impresa. E’ del tutto chiaro che, in assenza di uno strumento di tutela quale quello della retroversione, per l’autore dell’illecito sarebbe sempre conveniente la contraffazione, dal momento che una misura meramente compensativa consentirebbe comunque al detto soggetto di incamerare il differenziale economico tra il suo profitto e l’altrui danno. Come è stato sottolineato in dottrina, se il contraffattore è più efficiente del titolare e il suo arricchimento è superiore al danno provocato a quest’ultimo, una regola solo risarcitoria (incentrata, cioè, sulla mera riparazione del danno effettivamente occorso) adempie, sì, a una funzione compensativa, ma non ha alcun effetto preventivo o deterrente. Nella prospettiva di un disegno legislativo volto a vietare ogni forma di parassitismo, la retroversione degli utili opera, dunque, nel senso della deterrenza: con la sola avvertenza, pure espressa dalla dottrina, che quando la violazione ha carattere doloso o colposo la retroversione mostra chiaramente questa finalità disincentivante della contraffazione economicamente efficiente, mentre nel caso di violazione inconsapevole il rimedio si spiega con la volontà legislativa di “rafforzare le prerogative di chi sfrutta legittimamente la proprietà industriale”.
All’istituto in questione si ritiene invece estranea un’accezione punitiva: conclusione, questa, che è possibile desumere da una pluralità di dati. Può richiamarsi, anzitutto, l’argomento speso da chi ha sottolineato come la retroversione operi in alternativa al risarcimento del danno e nella misura in cui gli utili eccedano tale risarcimento, “e non sempre e in toto, come sarebbe logico se la sanzione davvero contenesse i danni punitivi”. Può farsi pure menzione del tenore del considerando 26 della direttiva enforcement che ha trovato recepimento nel D. Lgs. n. 140 del 2006, con cui è stato novellato l’art. 125 c.p.i. secondo cui il fine della disciplina delle compensazioni pecuniarie in favore della parte lesa “non è quello di introdurre un obbligo di prevedere un risarcimento punitivo, ma di permettere un risarcimento fondato su una base obiettiva” (anche se, per la verità, la giurisprudenza unionale ha lasciato irrisolta la questione circa la contrarietà o meno del risarcimento punitivo all’art. 13 della direttiva 2004/48: cfr., infatti, Corte giust. UE 25 gennaio 2017, C-367/15, Stowarzyszenie, 29). Possono citarsi, ancora, le stesse parole della relazione ministeriale al D. Lgs. n. 140 del 2006: nell’illustrare che il novellato art. 125 considera le misure del risarcimento del danno e della retroversione degli utili come operativamente e concettualmente distinte, siccome riconducibili, rispettivamente, al profilo della reintegrazione del patrimonio leso e a quello dell’arricchimento senza causa, la detta relazione mostra di attribuire al rimedio in questione una matrice del tutto diversa da quella punitiva.
Anche questa S.C. è venuta precisando che “l’istituto della retroversione degli utili non configura un’ipotesi di danni punitivi (punitive o exemplary damages), ma piuttosto una misura rimediale speciale, sui generis, di natura mista, compensatoria e dissuasiva, fondata su di un particolare arricchimento ingiustificato” (Cass. 29 luglio 2021, n. 21832, in motivazione). E’ stato spiegato che nell’istituto si rinviene, più che una funzione punitiva, una correlazione analogica, espressa in termini di non completa sovrapposizione delle fattispecie, “con i principi che governano l’arricchimento senza causa”; l’intento legislativo – si è precisato – è quello di riallocare la distribuzione di ricchezza “fra colui che ha realizzato dei benefici ingiustificati, sfruttando la privativa altrui, e colui il cui diritto assoluto è stato sfruttato per realizzarli, a prescindere dall’accertamento controfattuale circa il conseguimento di quegli stessi benefici da parte sua, in una sequenza di eventi alternativa” (sent. cit., sempre in motivazione).
Ciò detto, nella soluzione proposta da Hop Mobile e dal Fallimento (Omissis) la somma da liquidarsi risulterebbe superiore non solo al pregiudizio patrimoniale sofferto dall’avente diritto per lucro cessante, ma anche all’utile conseguito dal contraffattore.
Si frappongono a tale risultato più elementi ostativi.
Anzitutto, l’esito indicato non è compatibile con la finalità compensativa e dissuasiva della misura della retroversione degli utili; rispetto a tale connotazione funzionale del rimedio attraverso cui è assicurato sia il ristoro del pregiudizio patrimoniale del danneggiato, sia l’effetto di deterrenza verso la contraffazione dell’operatore economico che si mostri efficiente – risulta debordante il riconoscimento di somme ulteriori a titolo di retroversione degli utili: di somme che si aggiungerebbero, cioè, all’importo già accordato al danneggiato come risarcimento del lucro cessante (ove questo sia superiore all’utile del contraffattore) o come retroversione dell’utile (nel caso opposto in cui il detto utile risulti superiore al mancato guadagno). L’attribuzione di un importo aggiuntivo non trova giustificazione proprio in quanto la finalità compensativa e dissuasiva del rimedio consente di riversare sul contraffattore un obbligo restitutorio che è pari all’utile da lui conseguito (ove superiore al lucro cessante): oltre detta soglia il ristoro perde la sua funzione compensativa e dissuasiva e finisce per piegarsi a una finalizzazione punitiva che, come si visto, è estranea all’istituto.
In secondo luogo, l’utile da prendere in considerazione ai fini che qui interessano deve essere uno, in quanto esso va riferito all'”autore della violazione”: mentre il danno da lucro cessante può assumere diversa consistenza in ragione della pluralità dei soggetti danneggiati, l’utile suscettibile di retroversione ha come referente soggettivo non la persona del danneggiato, ma quella del contraffattore, onde non può mutare di entità per effetto del numero dei soggetti che abbiano risentito un pregiudizio dalla condotta illecita posta in essere.
In definitiva, in presenza di più aventi diritto non si giustifica che l’utile del contraffattore sia assegnato a uno dei danneggiati in aggiunta a quanto già riconosciuto a titolo di risarcimento o di retroversione ad altro danneggiato
In particolare, nell’ipotesi in cui il lucro cessante già accordato sopravanzi l’utile del contraffattore, è da considerare un preciso indicatore normativo quanto alla non cumulabilità dei rimedi: indicatore che si rinviene nell’art. 125, comma 3, c.p.i. Tale norma configura come alternative le misure del risarcimento del danno e della restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione (pur consentendo la condanna a tale restituzione nel caso in cui gli utili eccedono il risarcimento), onde preclude la sommatoria dei due rimedi. Non rileva, ad avviso del Collegio, che la norma manchi di considerare l’ipotesi, che qui ricorre, della pluralità dei potenziali danneggiati. Sul piano testuale quel che conta è l’opposto: e cioè che la norma non contempli eccezioni al divieto del cumulo. Il dato desumibile dall’interpretazione letterale si salda, poi, con quello ricavato dall’esegesi funzionale: se l’art. 125, comma 3, cit., in una logica cui sono estranei intenti punitivi, intende sottrarre il contraffattore a misure compensative date dalla sommatoria del danno per lucro cessante e dell’arricchimento ingiustificato da lui conseguito, non si vede per quale ragione tale disposizione, nell’ipotesi in cui gli aventi diritto al risarcimento siano più d’uno, debba avere una diversa portata.
Ad analoga conclusione deve pervenirsi nell’ipotesi in cui sia pronunciata condanna alla retroversione degli utili in favore di uno degli aventi diritto e si dibatta della possibilità di emettere analoga statuizione a beneficio di altro danneggiato (fattispecie che potrebbe tornare di attualità, nel presente giudizio, in ragione dell’accoglimento del dodicesimo motivo del ricorso principale e del conseguente accertamento, demandato al Giudice di rinvio, della reale entità del danno risarcibile per lucro cessante che andrebbe risarcito). Con riferimento a questa ipotesi è da ribadire che l’utile retrovertibile è unico, non potendo riprodursi in conseguenza della pluralità dei danneggiati. Ma vale la pena di osservare, in aggiunta, che una diversa soluzione sarebbe, di nuovo, non compatibile con la funzione (solo) compensativa e dissuasiva dell’istituto.
Resta inteso che il divieto riguarda il cumulo delle due misure, onde nulla impedisce che nel computo del danno da lucro cessante da risarcire (e da prendere in considerazione per il raffronto con l’utile, in vista della liquidazione finale) entrino in gioco plurimi elementi patrimoniali, rappresentativi, in diversa misura, del pregiudizio risentito da ciascuno dei diversi danneggiati. E resta inteso, altresì, che il giudice del merito debba comunque valutare come ripartire tra i diversi aventi diritto il risarcimento o l’utile da assegnare.
Deve dunque concludersi nel senso che, in tema di proprietà industriale, nel caso di pluralità di aventi diritto, il contraffattore non può essere tenuto al risarcimento del lucro cessante (siccome superiore agli utili da lui conseguiti) nei confronti di uno dei danneggiati e, insieme, alla retroversione degli utili in favore degli altri, così come non può essere tenuto a una plurima retroversione in favore dei diversi danneggiati, dovendo, semmai, il risarcimento del danno o l’utile retrovertibile oggetto della condanna essere ripartiti tra i diversi aventi diritto.
13. – Col terzo mezzo il Fallimento (Omissis) e Hop Mobile denunciano la violazione o falsa applicazione degli artt. 1362 e 1353 c.c. Si lamenta che la sentenza impugnata abbia negato ad Hop Mobile il risarcimento del danno a titolo di lucro cessante sulla base di un’erronea interpretazione, frutto dell’applicazione di criteri ermeneutici diversi da quelli normativamente previsti, del contratto di licenza stipulato con (Omissis).
Viene in gioco la decisione assunta dal Giudice di appello con riguardo all’interpretazione di una clausola del contratto di licenza concluso tra Hop Mobile e (Omissis). La Corte di merito ha ritenuto che la clausola in questione – la n. 8 – subordinasse nell’an e nel quando l’efficacia delle clausole nn. 4 e 5, relative all’obbligo di versamento di una royalty al raggiungimento di un certo numero di vendite; ha reputato, poi, non essere stata fornita prova che l’evento che avrebbe determinato l’efficacia dell’obbligazione di pagamento si fosse in concreto verificato: infatti – si trova scritto nella sentenza – era stato accertato dal consulente tecnico che Samsung aveva venduto nel territorio italiano un numero di telefoni ben inferiore alla soglia minima prevista nel contratto di licenza, che era pari a 100.000 pezzi (pronuncia della Corte di appello, pagg. 67 s.).
Assumono i ricorrenti incidentali che la lettura secondo cui il raggiungimento della soglia dei 100.000 dispositivi costituiva un vero e proprio presupposto dell’insorgenza dell’obbligazione di pagamento delle royalties colliderebbe con la volontà dei contraenti, i quali avevano sempre mostrato di ritenere che la clausola n. 8 del contratto di licenza fosse stata da loro stipulata col proposito di rinviare semplicemente il momento del pagamento dei canoni di licenza al raggiungimento della soglia sopraindicata, senza subordinare, quindi, l’efficacia delle obbligazioni di pagamento al conseguimento di tale obiettivo.
Il motivo è inammissibile.
E’ da osservare che l’art. 1362 c.c., allorchè nel comma 1 prescrive all’interprete di indagare quale sia stata la comune intenzione delle parti senza limitarsi al senso letterale delle parole, non svaluta l’elemento letterale del contratto ma, al contrario, intende ribadire che, qualora la lettera della convenzione, per le espressioni usate, riveli con chiarezza ed univocità la volontà dei contraenti e non vi sia divergenza tra la lettera e lo spirito della convenzione, una diversa interpretazione non è ammissibile (Cass. 26 aprile 2023, n. 10967; Cass. 23 agosto 2019, n. 21576).
Nel caso in esame la Corte di merito ha valorizzato l’evidenza del dato testuale e non si fa questione, nella presente sede, di altre clausole del contratto che siano rivelatrici di una diversa intenzione dei contraenti.
I ricorrenti per incidente assumono che un elemento rappresentativo del diverso spirito dell’accordo, con riguardo alla disposizione negoziale che qui interessa, avrebbe dovuto trarsi da alcuni stralci degli atti processuali. In realtà, gli stralci in questione non recano alcuna indicazione della disposizione negoziale di cui si dibatte e competeva ai ricorrenti spiegare per quale ragione le deduzioni svolte (che costituiscono – a quanto pare – espressioni delle comuni difese da loro svolte a sostegno delle domande avanzate nei confronti delle controparti) dovessero indurre al superamento dell’interpretazione della Corte di appello. L’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto del negozio si traduce infatti in una indagine di fatto, affidata al giudice di merito e censurabile in sede di legittimità nella sola ipotesi di motivazione inadeguata ovvero di violazione di canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 ss. c.c. Pertanto, al fine di far valere una violazione sotto i due richiamati profili, il ricorrente per cassazione deve non solo fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione mediante specifica indicazione delle norme asseritamene violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità (Cass. 9 aprile 2021, n. 9461; Cass. 16 gennaio 2019, n. 873; Cass. 15 novembre 2017, n. 27136; Cass. 9 ottobre 2012, n. 17168; Cass. 31 maggio 2010, n. 13242; Cass. 9 agosto 2004, n. 15381). Ed è da considerare, in aggiunta, che le censure vertenti sull’interpretazione del negozio non possono risolversi nella mera contrapposizione tra l’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata, poichè quest’ultima non deve essere l’unica astrattamente possibile ma solo una delle plausibili interpretazioni: sicchè, quando di una clausola contrattuale sono possibili due o più interpretazioni, non è consentito, alla parte che aveva proposto l’interpretazione poi disattesa dal giudice di merito, dolersi in sede di legittimità del fatto che fosse stata privilegiata l’altra (Cass. 27 giugno 2018, n. 16987; Cass. 28 novembre 2017, n. 28319).
Hop Mobile e il Fallimento deducono, poi, che, ove pure volesse ricondursi la clausola n. 8 al meccanismo della condizione sospensiva, la stessa costituirebbe condizione unilaterale pattuita nel solo interesse di (Omissis), la quale vi avrebbe rinunciato, come sarebbe dato di ricavare dagli atti processuali sopra richiamati. Sennonchè, la Corte di appello, a fronte della deduzione circa l’avvenuta rinuncia, ha osservato che il Fallimento di (Omissis) non aveva fornito alcuna prova del conseguente pagamento alla licenziante delle royalties per i cellulari effettivamente venduti, e quindi del danno subito (sentenza, pag. 68). Ebbene, i ricorrenti non si misurano con tale ratio decidendi: per il che anche tale censura risulta inammissibile.
14. – Col sesto motivo del ricorso incidentale viene denunciata la violazione o falsa applicazione dell’art. 2598 c.c. Si contesta sussistessero le condizioni per la condanna dei ricorrenti per incidente al risarcimento del danno correlato alla pubblicazione di articoli giornalistici che avrebbero presentato carattere denigratorio. Spiegano i ricorrenti che l’art. 2598, n. 2, c.c. colpisce chiunque diffonda notizie e apprezzamenti sui prodotti e sull’attività di un concorrente idonei a determinarne il discredito: nel caso di specie la condotta prevista dalla norma non risulterebbe integrata, dal momento che le dichiarazioni asseritamente denigratorie proverrebbero da giornalisti che avevano autonomamente riferito le notizie in termini coloriti.
Il motivo investe la statuizione adottata dalla Corte di appello con riferimento al tredicesimo motivo di gravame, con cui gli odierni ricorrenti incidentali avevano censurato la sentenza di primo grado nella parte in cui aveva condannato Hop Mobile al risarcimento del danno, liquidato equitativamente in Euro 50.000,00, per un’attività di concorrenza sleale denigratoria posta in essere nei confronti delle società Samsung. Si trattava, in particolare, di articoli giornalistici in cui venivano riportate e commentate notizie relative a quanto in prima battuta deciso, in sede cautelare, dal Tribunale di Milano in relazione alla lamentata contraffazione del brevetto di Hop Mobile.
La Corte distrettuale ha osservato che le notizie riportate negli articoli giornalistici non consentivano ai lettori di acquisire tutti gli elementi che valessero a circostanziare la decisione adottata dal Tribunale. Secondo il Giudice del gravame il messaggio veicolato da tali comunicazioni era “non veritiero e alcune delle espressioni utilizzate (ad esempio l’espressione (Omissis) o le affermazioni Abbiamo messo in ginocchio il secondo produttore al mondo di telefonia mobile, Samsung ha fatto orecchie da mercante o “Una bella bastonata” (trasmettevano) un apprezzamento fortemente negativo idoneo a determinare il discredito a danno dei concorrenti” (sentenza impugnata, pagg. 79 s.).
Ora, appare del tutto evidente, dal tenore della motivazione, che la Corte di appello ha riferito le dette espressioni non al giornalista, ma a chi aveva reso le dichiarazioni a nome della società, reputando, in conseguenza, che le stesse andassero imputate a quest’ultima.
Il motivo, quindi, è da dichiarare inammissibile in quanto carente di aderenza alla ratio decidendi.
15. – Col settimo motivo del ricorso incidentale si assume che la sentenza impugnata sarebbe viziata per violazione o falsa applicazione degli artt. 2044 e 2598, n. 2, c.c. La censura investe l’affermazione della Corte di appello secondo cui agli atti denigratori posti in essere non poteva applicarsi l’esimente della legittima difesa.
La Corte di merito ha infatti disatteso l’eccezione sollevata dagli odierni ricorrenti incidentali quanto alla legittima difesa, che ha ritenuto non potesse operare in presenza di notizie non veritiere e diffamatorie (sentenza, pag. 80).
Il motivo è infondato.
In dottrina si ammette che la responsabilità per il comportamento anticoncorrenziale altrimenti vietato possa essere esclusa dalla legittima difesa. E questa Corte ha da tempo rilevato che il riconoscimento della possibilità di applicare anche a colui che sia danneggiato da una condotta di concorrenza sleale i diritti di autotutela privata “può evitare di premiare colui il quale aggredisce illecitamente l’altrui avviamento e, con il vantaggio del primo colpo, arreca all’investimento del concorrente un danno che la reintegrazione che segue alla tutela giudiziaria può rendere tardivo” (Cass. 4 novembre 1998, n. 11047, in motivazione).
Il terreno della condotta denigratoria è innegabilmente quello che più si presta all’individuazione di fattispecie in cui è operante la detta esimente.
Quanto alle condizioni che giustificano l’applicazione della legittima difesa, l’art. 2044 c.c. impone di prendere in esame la fattispecie prevista dall’art. 52 c.p. La scriminante contemplata da tale norma opera, come è noto, allorquando chi ha commesso il fatto vi sia stato costretto dalla necessità di difendere un diritto proprio o altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, sempre che la difesa risulti proporzionata all’offesa.
Nella giurisprudenza di questa Corte si trova affermato che la diffusione di notizie, sia pure screditanti, nei confronti del concorrente o dei suoi prodotti non è considerata illecita quando sia dovuta alla necessità di reagire ad un’altrui scorrettezza concorrenziale (cfr. Cass. 20 marzo 2009, n. 6865, non massimata in CED, ove richiami ad altri precedenti), a condizione che la reazione dell’imprenditore che sia danneggiato dalla condotta sleale del concorrente risponda ai parametri della continenza generale e della proporzionalità rispetto all’offesa ricevuta (Cass. 23 maggio 2018, n. 12820). In realtà, quello della continenza, o moderazione, è solo uno dei criteri attraverso cui è possibile declinare il giudizio di proporzionalità; altro criterio è quello della veridicità della comunicazione, che questa Corte, in una pronuncia, ha ritenuto in sè decisivo ai fini dell’ammissibilità dell’esimente (Cass. 31 ottobre 2016, n. 22042, secondo cui la legittima difesa, quale reazione difensiva ad un’altrui offesa, non può consistere nella divulgazione di notizie false sui prodotti e l’attività del concorrente e non esclude, quindi, la responsabilità civile per l’illecito concorrenziale previsto dall’art. 2598, comma 1, n. 2, c.c.).
Ebbene, la sentenza impugnata mostra di voler conferire rilievo proprio al mancato rispetto della proporzionalità allorquando evidenzia che le dichiarazioni oggetto di diffusione risultavano essere non veritiere e diffamatorie. Se può infatti ammettersi che la legittima difesa abbia a concretarsi anche nel campo della comunicazione di provvedimenti giudiziali favorevoli alla parte destinataria dell’altrui condotta illecita, va nondimeno precisato che l’informazione deve porre il pubblico dei potenziali consumatori nelle condizioni di conoscere, in modo obiettivo, l’esito dei procedimenti introdotti, risultando così finalizzata a neutralizzare gli effetti negativi del comportamento violativo del diritto: l’informazione non può invece assumere una forma offensiva, nè veicolare contenuti non veridici, giacchè in tali evenienze l’esimente non opera per difetto delle condizioni della proporzionalità.
Il motivo in esame va dunque respinto in applicazione del principio per cui, in materia di concorrenza sleale per denigrazione, l’esimente della legittima difesa opera in presenza della necessità di difendere un diritto contro il pericolo attuale dell’offesa ingiusta altrui, a condizione che la reazione si attui nel rispetto della proporzionalità rispetto all’offesa ricevuta, con la conseguenza che essa non può invocarsi ove si diffondano con toni offensivi notizie false relativamente all’emanazione di un provvedimento dell’autorità giudiziaria.
16. – L’ottavo e ultimo motivo del ricorso incidentale prospetta la violazione o falsa applicazione degli artt. 1226 e 2056 c.c. Avrebbe errato la Corte di appello a liquidare il danno per la concorrenza sleale posta in atto ai danni delle società Samsung, posto che queste ultime non avevano allegato, se non in modo generico, nè provato alcunchè in merito alla sussistenza del pregiudizio patrimoniale da loro sofferto in ragione della condotta illecita divisata.
Il Giudice distrettuale, tenuto conto che la diffusione delle notizie in contestazione era avvenuto su due giornali a tiratura locale, aveva ritenuto adeguato l’importo liquidato dal Tribunale in Euro 50.000,00 a titolo di risarcimento del danno (importo, questo, che avrebbe dovuto corrispondersi in favore delle due società Samsung in solido) (cfr. sentenza impugnata, pag. 80).
Il motivo è nel complesso infondato.
I ricorrenti incidentali fanno questione, oltre che della mancata prova del danno, di una allegazione solo generica dello stesso. Ora, la decisione che fosse stata assunta sulla base di un’allegazione inidonea risulterebbe viziata e andrebbe impugnata per error in procedendo ex art. 360, n. 4. c.p.c. La deduzione con il ricorso per cassazione di errores in procedendo implica, però, che la parte ricorrente indichi gli elementi individuanti e caratterizzanti il “fatto processuale” (Cass. Sez. U. 25 luglio 2019, n. 20181). Il mezzo di censura, sul punto della richiamata allegazione, appare carente di specificità, in quanto non riporta quanto necessario per avere contezza di quanto dedotto, al riguardo, da Hop Mobile e dal Fallimento (Omissis). La censura è dunque, per questa parte, inammissibile.
Con riguardo al tema della prova, occorre considerare che per la giurisprudenza di questa Corte l’accertamento di concreti fatti materiali di concorrenza sleale comporta una presunzione di colpa, ex art. 2600 c.c., che onera l’autore degli stessi della dimostrazione dell’assenza dell’elemento soggettivo ai fini dell’esclusione della sua responsabilità; il corrispondente danno cagionato, invece, non è in re ipsa ma, quale conseguenza diversa ed ulteriore rispetto alla distorsione delle regole della concorrenza, necessita di prova secondo i principi generali che regolano il risarcimento da fatto illecito, sicchè solo la dimostrazione della sua esistenza consente l’utilizzo del criterio equitativo per la relativa liquidazione (Cass. 23 dicembre 2015, n. 25921; Cass. 26 marzo 2009, n. 7306).
Nel caso in esame non risulta che il danno fosse indimostrato: la Corte di appello ha anzi dato atto della diffusione di notizie inveritiere e screditanti, come tali produttive di un danno all’immagine. Nulla si opponeva, dunque, alla liquidazione equitativa del danno.
17. – Tirando le fila, dunque, quanto al ricorso principale va accolto il dodicesimo motivo del ricorso principale, mentre il decimo e l’undicesimo devono dichiararsi assorbiti, il diciannovesimo è in parte da rigettare e in parte da dichiarare assorbito e gli altri sono da disattendere. Il ricorso incidentale risulta invece nel complesso infondato.
18. – La sentenza è cassata in relazione al motivo accolto, con rinvio della causa alla Corte di appello di Milano che giudicherà in diversa composizione.
Il ricorso incidentale è respinto.
Le spese del giudizio di legittimità saranno regolate dal Giudice del rinvio.
P.Q.M.
La Corte:
accoglie il dodicesimo motivo del ricorso principale, dichiara assorbiti il decimo e l’undicesimo, dichiara inammissibili il quinto, il sesto, il settimo, il quattordicesimo, il sedicesimo, il diciassettesimo e il ventesimo e rigetta gli altri, salvo il diciannovesimo, che in parte rigetta e in parte dichiara assorbito; respinge il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto, con rinvio della causa, anche per le spese del giudizio di legittimità, alla Corte di appello di Milano, che giudicherà in diversa composizione; ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla l. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte dei ricorrenti incidentali, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello stabilito per il ricorso, se dovuto.
Conclusione
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della 1ª Sezione Civile, il 27 settembre 2023.
Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2023