AGRIFOOD TECH: LA BLOCKCHAIN A TUTELA DEL MADE IN ITALY
– Marta Amendola*
SOMMARIO: 1.- Verso una concezione “etica” della qualità; 2.- La tutela del Made in Italy: frammenti di disciplina; 3.- Tracciabilità della filiera alimentare: una prospettiva comparata; 4.- La tecnologia blockchain per rilanciare l’eccellenza agroalimentare italiana?
1.- Verso una concezione “etica” della qualità
Il tema della qualità dei prodotti agroalimentari e della tutela del Made in Italy è di centrale importanza per il sistema economico nostrano, rappresentando un importante asset nell’economia di mercato, quale fattore concorrenziale[1].
Pertanto, si presenta necessario discutere, in termini giuridici, del concetto di ‘qualità’ e compiere alcune considerazioni circa l’effettività dei rimedi predisposti a sua tutela a livello nazionale e sovranazionale.
Esso, invero, presenta una connotazione multidimensionale, dai contorni labili, insuscettibile di essere normativamente definito in modo assoluto[2].
Nel tentativo di chiarirne gli aspetti fondamentali, appare opportuno partire, de iure condito, dalle principali nozioni del diritto positivo, dalle quali è possibile evincere una componente oggettiva e soggettiva[3]. La prima, è l’insieme di caratteristiche oggettive del prodotto, quali gli attributi che ne delineano la composizione, il metodo e il luogo di produzione. L’altra, invece, indica la superiorità del prodotto, attraverso un giudizio di valore e, dunque, per ciò stesso “evolutivo”[4] del consumatore, manifestatosi con la scelta di acquisto.
La tutela e la valorizzazione della quality of agricultural products trova collocazione nel contesto europeo; agli inizi degli anni novanta ci si è resi conto della necessità, per rendere un prodotto realmente competitivo, di rivedere le scelte della Politica Agricola Comune (PAC)[5] favorendo un passaggio dal fattore ‘quantitativo’ ad uno di tipo ‘qualitativo’[6]: gli obiettivi vengono plasmati muovendo da un sistema di sostegno del mercato a un sostegno diretto al reddito degli agricoltori, incentivando, mediante l’introduzione di nuovi obblighi e misure di sostegno, lo sviluppo sostenibile[7] e la qualità delle produzioni agroalimentari.
Lo scenario così tratteggiato deve essere considerato nella sua dimensione sociale ed economica. Difatti, la politica di sostegno della qualità dei prodotti alimentari diviene uno dei punti di maggior rilievo della food law europea, secondo una strategia finalizzata ad assicurare la scelta razionale del consumatore, impedendo asimmetrie informative, valorizzando una concorrenza qualitativa oltre che di prezzo. A livello europeo, del resto, «la concorrenza non è tutelata come un ‘valore in sé’, ma solo come ‘bene giuridico strumentale’ per il raggiungimento di finalità di ordine superiore»[8], che si traducono nel raggiungimento di un «massimo benessere per il consumatore» (c.d. total walfare)[9].
Tale evoluzione è testimoniata dai Regolamenti (CEE) 2029/91, 2081/92 e 2082/92 sul metodo di produzione biologica, su DOP, IGP e attestazioni di specificità (ora STG), nonché alla Direttiva n. 13 del 2000 sull’etichettatura, nei quali la qualità, e la sua corretta comunicazione, assurge a perno del sistema. Si realizza, in tal senso, una sintesi tra l’interesse dei produttori agricoli, ad una remunerazione che comprenda, quale valore aggiunto, la qualità legata all’origine geografica, e dei consumatori, destinatari delle informazioni veicolate da tali segni distintivi, sulle quali fondare la propria scelta ‘consapevole’ di consumo[10].
Dunque, per delimitare la valenza del concetto di ‘qualità agroalimentare’, l’indagine muoverà dai regimi giuridici introdotti in sede europea, frutto di un’opera di armonizzazione e chiarificazione legislativa.
Ebbene, occorre porre l’accento sulle indicazioni d’origine e all’attuale Regolamento (UE) 1151/2012 del 21 novembre 2012 «sui regimi di qualità dei prodotti agricoli e alimentari»[11] che, evidenziando sin dal titolo la collocazione assegnata a tali segni[12]– DOP, IGP, STG e Indicazioni facoltative di qualità – sostituisce i Regolamenti (CEE) 2081/92 e 2082/92, già modificati dai Regolamenti (CE) n. 509 e 510 del 2006[13].
A mutare è, in primo luogo, la base giuridica che si rinviene negli artt. 43, par. 2 e art. 118 TFUE, così da ricondurre le politiche di qualità sia nell’ambito della PAC e, altresì, nelle politiche di intervento e sostegno del mercato, nonché di quelle relative alla tutela della proprietà intellettuale e della concorrenza leale[14].
La ratio sottesa a tale normativa è quella di favorire la competitività delle imprese della filiera agroalimentare nella prospettiva dello sviluppo rurale[15] e, per l’effetto, aumentarne la redditività, contrastando le distorsioni dei meccanismi concorrenziali, anche mediante strumenti tesi a ripristinare la fiducia dei consumatori[16].
L’art. 1, infatti, enuncia un bilanciamento di interessi tra gli attori della filiera agroalimentare: «Il presente regolamento intende aiutare i produttori di prodotti agricoli e alimentari a comunicare agli acquirenti e ai consumatori le caratteristiche e le modalità di produzione agricola di tali prodotti, garantendo in tal modo: a) una concorrenza leale per gli agricoltori e i produttori di prodotti agricoli e alimentari aventi caratteristiche e proprietà che conferiscono valore aggiunto; b) la disponibilità per i consumatori di informazioni attendibili riguardo a tali prodotti; c) il rispetto dei diritti di proprietà intellettuale; e d) l’integrità del mercato interno». L’art. 4, indica plurimi obiettivi perseguiti con le indicazioni geografiche protette ovvero garantire una giusta remunerazione per le qualità dei prodotti, armonizzare le tecniche di tutela dei nomi in quanto diritto di proprietà intellettuale sul territorio dell’Unione e, infine, fornire ai consumatori informazioni chiare sulle proprietà che conferiscono valore aggiunto ai prodotti.
Dalle norme del Regolamento, poi, emerge come il concetto di qualità rilevante per il legislatore europeo sia quello di ‘qualità territoriale’ attraverso la valorizzazione del territorio di produzione (DOP e IGP) e delle ricette tradizionali (STG), prevedendo per ciascuno di essi specifiche forme di controllo e di certificazione.
La «denominazioni di origine» è il «nome che identifica un prodotto: a) originario di un luogo, regione o, in casi eccezionali, di un paese determinato; b) la cui qualità o le cui caratteristiche sono dovute essenzialmente o esclusivamente ad un particolare ambiente geografico ed ai suoi intrinseci fattori naturali e umani; e c) le cui fasi di produzione si svolgono nella zona geografica delimitata»[17] (art. 5, par. 1). Viene definita come «indicazione geografica» quella costituita da «un nome che identifica un prodotto: a) originario di un determinato luogo, regione o paese; b) alla cui origine geografica sono essenzialmente attribuibili una data qualità; la reputazione o altre caratteristiche; e c) la cui produzione si svolge per almeno una delle sue fasi nella zona geografica delimitata» (art. 5, par. 2).
Evidente appare, in sede europea, la scelta di salvaguardare la ‘qualità agroalimentare’ attraverso la tutela delle indicazioni utilizzate dai produttori per designarne determinate caratteristiche qualitative, differenziandosi sul mercato internazionale dai grandi sistemi economici di massa (come, ad esempio, gli USA) che nella ‘quantità’ – ossia incremento della produzione e abbassamento dei costi per l’utente finale – individuano il principale strumento concorrenziale in campo agroalimentare.
Tuttavia, limitando la tutela giuridica alla ‘protezione’ del nome, è questo ad essere protetto e non il prodotto[18], a dispetto delle ‘tipicità locali’, ossia di quelle produzioni intrise di tradizione e cultura, radicatesi nel tempo in un determinato territorio, confliggendo con l’idea della qualità come capacità distintiva dei prodotti alimentari nel mercato.
In tal senso, la ‘qualità’ viene ad identificarsi nell’immaginario collettivo con la ‘tipicità’ ovvero la conformazione ad un tipo – id est, il disciplinare di produzione[19] – con il quale condivide le caratteristiche qualitative[20]; queste ultime, tuttavia, non sono di per sé sufficienti a riempire di contenuto la nozione in esame.
Il termine di ‘qualità’ deve essere interpretato, invero, tenendo conto della polifunzionalità della produzione agricola, capace di assicurare una serie di esternalità positive a favore dell’intera collettività se calata all’interno delle politiche unionali e, in particolare: la sicurezza alimentare, la lotta ai mutamenti climatici, la salvaguardia delle biodiversità e la gestione delle risorse idriche[21].
Si potrebbe parlare, a proposito, della imminente necessità di superare la visione del food come mera merce, indirizzando, all’inverso, le scelte della filiera produttiva e di consumo verso una c.d. “etica della qualità”[22], valorizzando lo stretto legame tra qualità dei prodotti e delle produzioni da un lato, e qualità della vita dall’altro, secondo il cui significato occorre educare il consumatore.
L’agire eticamente orientato da parte delle imprese è per lo più ascrivibile alla Corporate Social Responsibility (CSR) o Responsabilità Sociale d’impresa (RSI)[23], espressione con la quale si è soliti indicare «l’integrazione, su base volontaria, da parte delle imprese, delle preoccupazioni sociali ed ecologiche nelle loro operazioni commerciali e nei rapporti con le parti interessate»[24], designando, in altri termini, la qualità complessiva di una governance responsabile.
La responsabilità del consumatore va intesa, invece, quale attenzione alla qualità incorporata nei prodotti oggetto delle nostre scelte di consumo e come senso di volontà, di contribuire a orientare in modo qualitativo la stessa offerta dei prodotti[25].
Ciò passa, inevitabilmente, attraverso la tutela e il controllo della filiera produttiva, in tutte le sue articolate fasi – di qui l’importanza della disciplina dell’etichettatura e della rintracciabilità dei prodotti agroalimentari – e, altresì, veicolando nel mercato informazioni attinenti all’intero ciclo di produzione.
In tale contesto, le innovazioni tecnologiche, in particolare della blockchain[26] e delle nuove potenzialità offerte dall’Internet of things, possono offrire risposte adeguate all’istanze, pubbliche e private, di sicurezza e alla qualità degli alimenti nonché di sostenibilità della produzione, tanto da essere ormai in voga l’espressione “agrifood tech”[27].
Infatti, la blockchain[28] può fornire un registro sicuro e distribuito di informazioni con accesso immediato, attendibile e di provenienza verificabile, che può avere caratteristiche di terzietà rispetto agli attori della filiera. Questo avviene perché tramite l’inserimento nella ‘catena di blocchi’ «del dato concernente il segno distintivo sotto forma di stringa numerica (c.d. hash value) gli viene conferita un’impronta digitale univoca, che costituisce una certificazione inalterabile»[29]. In particolare, una simile tecnologia strutturata in forma permissioned ledger[30], può consentire un effettivo monitoraggio, da parte degli attori della filiera, circa il rispetto delle prescrizioni contenute nei disciplinari di produzione, rendendo tale informazione consultabile al cliente finale, tramite un device (ad esempio uno smartphone), se inserita nella blockchain.
Decentramento[31], sicurezza, immutabilità[32] e trasparenza di informazioni rappresentano, pertanto, i quattro pilastri della tecnologia blockchain.
2.- La tutela del Made in Italy: frammenti di disciplina
Il quadro di riferimento tracciato consente di comprendere che il legame di un prodotto con la sua ‘origine’[33] assolve, quale funzione principe, l’esigenza di descrivere ‘qualitativamente’ l’alimento, ma sovente utilizzato quale mero strumento di marketing. In particolare, la dicitura ‘made in’ induce il consumatore a scelte d’acquisto, mosse non necessariamente da ragioni attinenti alla qualità del prodotto stesso quanto dalla sua fiducia su un determinato luogo geografico in base alle sue più svariate considerazioni soggettive.
D’altronde, l’identità territoriale è tra i principali criteri di selezione degli alimenti: le persone «based on a rough negotiation a pushing and tugging between three factors: identity, convenience and responsibility», laddove «identity involves considerations such as personal preference, pleasure, creativity, cultural values and ideas»[34].
Ebbene, nel contesto della globalizzazione dei mercati, che reca con sé il trend economico della delocalizzazione della produzione o di fasi della stessa in Paesi a basso costo della manodopera e delle materie prime, la dicitura ‘made in’ genera episodi di contraffazione dei prodotti agroalimentari, ostacolando l’affermazione del Made in Italy[35] nel mercato internazionale e nazionale del food.
In quest’ottica, dunque, si pone l’accresciuta sensibilità verso strumenti di comunicazione in grado di supplire le asimmetrie informative che pervadono gli scambi commerciali, nell’intento di tutelare la produzione agroalimentare nostrana avverso fenomeni di c.d. Italian sounding, ovvero di utilizzo improprio o illegale di denominazioni geografiche, immagini e marchi che evocano in qualche modo il nostro Paese, nonché causa di significative perdite in termini reputazionali ed economici[36].
Oggettivo rilievo rivestono, in proposito, i dettami preposti a regolamentare l’etichettatura dei prodotti agroalimentari.
In ambito europeo, il Regolamento UE 1169/2011 «relativo alla fornitura di informazioni sugli alimenti ai consumatori», propone una definizione di etichetta intesa come «qualunque marchio commerciale o di fabbrica, segno, immagine o altra rappresentazione grafica scritto, stampato, stampigliato, marchiato, impresso in rilievo o a impronta sull’imballaggio o sul contenitore di un alimento o che accompagna detto imballaggio o contenitore»[37].
L’etichetta «rappresenta una sorta di carta d’identità del prodotto»[38] ovvero un veicolo materiale di informazioni attinenti l’organizzazione della filiera agroalimentare che, se da un lato, assolve la funzione di contrastare distorsioni del mercato, dall’altro accresce comportamenti consapevoli dei consumatori.
Pare assodato che la politica comunitaria, nell’ambito dei contratti di compravendita alimentare, non ricerchi una giustizia sostanziale in vista della promozione di condotte contrattuali socialmente accettabili, ma piuttosto miri a razionalizzare le asimmetrie informative che permeano il mercato mediante interventi di giustizia procedurale, valorizzando il ruolo della forma; ciò si è tradotto nella moltiplicazione di oneri ed obblighi d’informazione, imposti al contraente professionista. In dottrina, infatti, si è parlato di una «forma con funzione informativa»[39], in grado di determinare un consenso informato sull’operazione economica colmando il deficit informativo. Il principio di trasparenza contrattuale o, se si preferisce, di solidarietà contrattuale[40], è in grado di accrescere la fiducia e la sicurezza dei contraenti e, per l’effetto, la quantità e la qualità degli scambi.
Sul punto, il Regolamento UE 1169/2011, con l’intento di garantire un giusto equilibrio «tra la protezione del mercato interno e le differenze nella percezione dei consumatori degli Stati membri»[41], interviene armonizzando la disciplina delle informazioni sugli alimenti, obbligatorie e volontarie, da apporre in etichetta o su «qualunque altro mezzo, compresi gli strumenti della tecnologia moderna»[42], al fine di assicurare un corretto esercizio dell’autonomia privata. Del resto, muovendosi in un contesto di mercato caratterizzato da un’asimmetria informativa tra le parti, l’utente finale ha la marcata esigenza, già esplicitata dall’art. 6 cod. cons., di avere informazioni chiare e precise su ciò che acquista e consuma[43].
Tuttavia, con riferimento all’ipotesi dell’obbligatorietà dell’indicazione di origine degli alimenti immessi nel mercato unico europeo, si ravvisa un’ambiguità e genericità delle fonti normative, foriere di contrasti dottrinali e giurisprudenziali.
Per l’art. 9, par.1, lettera i), con rinvio all’art. 26, del Regolamento UE 1169/2011 per il produttore è obbligatorio riportare in etichetta il «paese d’origine o luogo di provenienza» soltanto se la sua omissione possa indurre in errore il consumatore[44]. Sebbene la ratio di tale condizione limitativa sia quella di evitare una frammentazione del mercato interno, inducendo i consumatori ad acquistare il prodotto nazionale, la normativa europea non sembra sufficiente a tutelare i produttori italiani dal rischio di segni che richiamino indebitamente il nostro Paese.
Per luogo di provenienza si intende «qualunque luogo indicato come quello da cui proviene l’alimento» diverso dal paese d’origine, ossia il luogo dell’inizio dell’attività, individuato mediante il rinvio agli articoli da 23 a 26 del Regolamento (CEE) n. 2913/92. In particolare, il Codice doganale comunitario è attualmente sostituito dal nuovo Codice doganale dell’Unione Europea, introdotto dal Regolamento (UE) n. 952/2013, il quale definisce all’art. 60 che «1. Le merci interamente ottenute in un unico paese o territorio sono considerate originarie di tale paese o territorio. 2. Le merci alla cui produzione contribuiscono due o più paesi o territori sono considerate originarie del paese o territorio in cui hanno subito l’ultima trasformazione o lavorazione sostanziale ed economicamente giustificata, effettuata presso un’impresa attrezzata a tale scopo, che si sia conclusa con la fabbricazione di un prodotto nuovo o abbia rappresentato una fase importante del processo di fabbricazione»[45].
Il punto dolente della disposizione riguarda, dunque, l’ipotesi in cui l’alimento è prodotto in regime di delocalizzazione, concretizzandosi il pericolo che possa essere etichettatato come Made in Italy anche laddove ottenuto da materie prime provenienti da Paesi diversi.
A livello nazionale, il legislatore interviene predisponendo, accanto alle disposizioni civilistiche contro gli atti di concorrenza sleale, una tutela penale per contrastare le frodi commerciali agroalimentari.
In aggiunta alle disposizioni codicistiche[46], il riferimento è alla l. n. 350/2003, la quale estende la sanzione dell’art. 517 c.p. alla «importazione ed esportazione a fini di commercializzazione di prodotti recanti false o fallaci indicazioni di provenienza», precisando che «costituisce falsa indicazione la stampigliatura ‘made in Italy’ su prodotti e merci non originari dall’Italia ai sensi della normativa europea sull’origine; costituisce fallace indicazione, anche qualora sia indicata l’origine e la provenienza estera dei prodotti o delle merci, l’uso di segni, figure, o quant’altro possa indurre il consumatore a ritenere che il prodotto o la merce sia di origine italiana». Successivamente l’art.16, d.l. n. 135/2009, convertito nella l. n. 166/2009, ha disposto che è «classificabile come made in Italy» il prodotto per il quale «il disegno, la progettazione, la lavorazione ed il confezionamento sono compiuti esclusivamente sul territorio italiano».
Tale tipo di tutela che apparentemente potrebbe sembrare sinonimo di forte protezione, a contrario, è stata causa di rilevanti scontri giurisprudenziali.
Le formule normative, difatti, sono state interpretate nel senso che ciò che si garantisce non è l’origine di un prodotto da un determinato luogo, ma la provenienza da un determinato imprenditore che del prodotto si assume la responsabilità e, conseguentemente, se ne esclude la rilevanza penale laddove la merce sia frutto di know how riferibili all’imprenditore italiano. Tuttavia, diversa interpretazione viene accolta dalla Suprema Corte di Cassazione per i prodotti agricoli, la cui origine va intesa quale derivazione geografica e non imprenditoriale[47].
Con riferimento all’obbligatorietà dell’indicazione d’origine in etichetta dei prodotti immessi nel mercato unico europeo, dunque, il quadro normativo si presenta farraginoso in seguito alla presenza di plurime fonti normative europee e nazionali.
Difatti, l’art. 39, par. 2, del Regolamento UE 1169/2011 consente agli Stati membri di stabilire l’obbligatorietà dell’indicazione del paese d’origine o del luogo di provenienza degli alimenti solo ove esista «un nesso comprovato tra talune qualità dell’alimento e la sua origine o provenienza» laddove venga provato «che la maggior parte dei consumatori attribuisce un valore significativo alla fornitura di tali informazioni».
In definitiva, la disposizione normativa richiede un bilanciamento di interessi tra la tutela dell’autonomia negoziale e della salute del consumatore con le libertà economiche riconosciute e garantite a livello unionale.
Senonché, l’aumento delle informazioni apposte in etichetta genera confusione nel consumatore medio, il quale difficilmente saprà distinguere tra dichiarazioni semplici di provenienza, quale è la dicitura “made in”, e i segni di qualità alimentare (DOP, IG e STG).
L’attuale momento storico, dunque, pare segnato da una profonda contraddizione interna: l’imperativo categorico del diritto all’informazione, nell’ottica della consumer protection, si traduce in un palese trasferimento del rischio sullo stesso consumatore chiamato a decodificare la comunicazione, così che «sempre meno potrà dire di non aver letto, sempre meno potrà mostrarsi non avveduto, sempre meno potrà essere non informato»[48].
3.- Tracciabilità della filiera alimentare: una prospettiva comparata
Come è evidente, l’esigenza di assicurare uno strumento che garantistica le caratteristiche identificative dei prodotti agroalimentari anima gli operatori, economici e privati, che si muovono sugli scenari contemporanei della governance multilivello.
Trattasi, insomma, di una epoca storica, nella quale siamo chiamati ad affrontare impellenti sfide per la ‘qualità’ dei beni alimentari e, di conseguenza, per la salute pubblica, che richiedono soluzioni sistemiche tempestive. La liberalizzazione dei mercati e il conseguente sviluppo della circolazione degli alimenti hanno imposto l’adozione di strumenti tali da far conoscere ai consumatori e agli organi preposti alla tutela sanitaria gli elementi che concorrono all’identificabilità dei prodotti, al fine di assicurare sufficienti garanzie e protezioni ai primi[49].
In tale contesto, la tracciabilità alimentare assume, nell’ambito del commercio internazionale, rilievo giuridico di primo piano[50]. Ciò dipende dalla capacità di tale strumento di «stabilire l’identità, la storia e l’origine di un prodotto»[51], contribuendo in maniera significativa alla salute e al benessere dei cittadini, attraverso la circolazione di alimenti sicuri e sani, nonché ai loro interessi sociali ed economici. Tracciare gli alimenti lungo tutta la catena alimentare è fondamentale per la sicurezza dei consumatori in quanto consente alle aziende di gestire tempestivamente eventuali situazioni di pericolo e, altresì, facilita l’identificazione e il successivo ritiro dal mercato dei cibi a rischio, con una precisa attribuzione delle responsabilità tra fornitori, trasformatori e distributori.
Si assiste, infatti, ad un cambiamento radicale e ad una evoluzione del concetto di safety che, se originariamente faceva perno solo sulla qualità e origine dei prodotti, oggi richiede un controllo sulla storia degli alimenti nel flusso della filiera produttiva.
Sul piano internazionale, si rinvengono differenti approcci regolatori, in ragione delle finalità che si intendono perseguire con tale strumento e che rappresentano opzioni di fondo delle politiche regolatorie adottate.
Nell’ottica di facilitare gli scambi commerciali, all’uopo, si registrano iniziative di armonizzazione ad opera delle istituzioni sovranazionali[52]. Si fa riferimento, in particolare, al Codex Alimentarius, predisposto dalla Food and Agriculture Organization (FAO), agenzia interna dell’Organizzazione delle Nazioni unite, e dall’ Organizzazione mondiale della sanità (OMS)[53]. Gli standard del Codex, pur rappresentando soltanto delle raccomandazioni per applicazioni volontarie degli Stati Membri, sono utilizzati come base per le legislazioni alimentari dei Paesi membri; un caso di recepimento in materia di tracciabilità, ad esempio, si è avuto in Canada[54].
Tuttavia, la materia appare tutt’ora segnata da normative sensibilmente difformi e, in questa prospettiva, si presenta utile una disamina comparata degli approcci regolatori più significativi, al fine di segnalare prospettive di convergenza e divergenza.
In ambito europeo, a seguito dell’inadeguatezza di una disciplina frammentaria e limitata solo ad alcuni alimenti, sia sotto il profilo dello sviluppo della circolazione dei prodotti, sia della fiducia dei consumatori all’esito delle emergenze sanitarie, viene predisposto il Regolamento (CE) n. 178/2002. In particolare, il legislatore europeo adotta un approccio regolatorio generalizzato, imponendo a carico degli operatori del settore l’obbligo di rintracciabilità per ogni tipo di alimento, altresì «dei mangimi, degli animali destinati alla produzione alimentare e di qualsiasi altra sostanza destinata o atta a entrare a far parte di un alimento o di un mangime»[55].
Il Regolamento definisce la rintracciabilità, o tracciabilità[56], come «la possibilità di ricostruire e seguire il percorso di un alimento, di un mangime, di un animale destinato alla produzione alimentare o di una sostanza destinata o atta ad entrare a far parte di un alimento o di un mangime attraverso tutte le fasi della produzione, della trasformazione e della distribuzione»[57], adottando un approccio “one step back – one step forward”. In particolare, tale sistema consente a ciascun operatore della filiera di individuare «sia il soggetto dal quale ha ricevuto il prodotto, sia colui al quale lo ha ceduto»[58].
La legislazione federale canadese, a seguito del recepimento degli standard internazionali predisposti nel Codex Alimentarius, condivide con l’Unione Europea un simile approccio.
Trattasi di un’evoluzione del sistema giuridico canadese in materia di tracciabilità di non poco momento, che ha agevolato, tra l’altro, la conclusione del Comprehensive Economic and Trade Agreement (CETA), ossia il trattato commerciale di libero scambio sottoscritto tra l’UE e il Canada, entrato in vigore, in forma provvisoria il 21 settembre 2017[59].
Il Safe Food for Canadians Regulations (SFCR) del 15 gennaio 2019 prevede, con l’obiettivo di accrescere l’accesso al mercato per il settore agricolo canadese, allineando la legislazione sulla sicurezza alimentare con quella dei principali partner commerciali, nuovi obblighi in materia di licenze, tracciabilità e controlli preventivi, che si applicano alle imprese che importano o preparano alimenti per l’esportazione tra le province o verso l’estero. In tal senso, è evidente una limitazione soggettiva rispetto alla disciplina europea, tale da escludere dagli obblighi di tracciabilità i produttori locali di alimenti non coinvolti in processi di trasformazione o commercializzazione oltre i propri confini provinciali[60].
Negli Stati Uniti, invece, manca un modello unitario di tracciabilità degli alimenti e le competenze in materia sono articolate sul duplice livello federale e statale[61]. Pertanto, i produttori fanno riferimento prevalentemente a standard privati e l’introduzione della tracciabilità nelle filiere agroalimentari dipende per lo più dagli incentivi derivanti dal mercato.
Il primo importante atto legislativo federale statunitense in materia di sicurezza alimentare è il Food Safety Modernisation Act (FSMA), introdotto nel 2011, che sebbene non preveda una tracciabilità obbligatoria degli alimenti, conferisce alla FDA (Food and Drug Administration) l’autorità di imporre controlli preventivi lungo tutta la catena di approvvigionamento alimentare. In particolare, si è ribadito l’obbligo per le aziende che producono derrate alimentari destinate al mercato americano di registrarsi presso la Food and Drug Administration e di predisporre dei piani di controllo della sicurezza alimentare corrispondenti alle linee guida della FDA[62]. In tal senso, l’agenzia federale, potrà imporre il ritiro obbligatorio a un’azienda alimentare, o sospendere la registrazione[63], laddove si riscontri una “reasonable probability” che il prodotto alimentare possa causare effetti gravemente deleteri alla salute[64].
In sostanza, sembra essersi accolto un principio di precauzione ‘moderato’, diversamente dalla food law europea[65], caratterizzata dalla possibilità di adottare misure restrittive al commercio ove si ravvisi «la possibilità di effetti dannosi per la salute ma permanga una situazione d’incertezza sul piano scientifico»[66].
Da ultimo, la FDA ha avviato il 20 luglio 2020 il progetto New Era of Smarter Food Safety, che delinea un nuovo approccio alla sicurezza alimentare, sfruttando la tecnologia e altri strumenti per creare un sistema alimentare più sicuro, digitale e tracciabile, nell’ottica di aumentare la trasparenza e la rintracciabilità all’interno della supply chain. L’obiettivo finale è avere una tracciabilità end-to-end della filiera, attraverso l’adozione volontaria, da parte delle aziende, di strumenti di intelligenza artificiale e raggiungere, per l’effetto, un’armonizzazione delle attività di tracciamento.
A tal fine, 21 novembre 2022 la Food and Drug Administration statunitense (FDA) ha pubblicato un testo di legge nella sua forma definitiva (Final Rule) dal titolo “Requirements for Additional Traceability Records for Certain Foods” relativo alla tracciabilità degli alimenti, entrato in vigore il 20 gennaio 2023[67]. Questa nuova disposizione legislativa stabilisce obblighi sulla tenuta dei documenti di registrazione, oltre a quelli già esistenti, per le realtà che producono, lavorano, confezionano o detengono le tipologie di alimenti che FDA ha scelto di includere nella Food Traceability List (FTL). I nuovi requisiti stabiliti nel testo di legge hanno lo scopo di consentire ad FDA una più rapida identificazione e rapida rimozione dal mercato di alimenti potenzialmente contaminati, con conseguente riduzione delle malattie di origine alimentare e/o dei decessi correlati, servendosi delle nuove tecnologie. Si pensi, in particolare, ai sistemi di distributed ledger, attraverso i quali possono essere registrati e perciò restare immutabilmente tracciati tutti i molteplici passaggi di produzione e distribuzione che interessano un determinato prodotto.
Ciò è testimonianza del fatto che, tra le tante sfide che segnano questo periodo di emergenze sanitarie, la safety ne è il perno essenziale e l’innovazione digitale può rendere può rendere maggiormente sicure le filiere e le singole imprese.
Con precipuo riferimento alla situazione europea, non esiste ancora una disciplina chiara in merito, ma le istituzioni UE hanno già adottato alcune misure per sostenere lo sviluppo della tecnologia blockchain[68]. In questo quadro,l’ UE Horizon 2020 ha finanziato il progetto TRICK (product data traceability information management by blockchains interoperability and open circular service marketplace) per costruire una piattaforma basata su un modello di blockchain che supporta la tracciabilità della catena di approvvigionamento, consentendo ai mercati alimentare e tessile di superare problemi come la contraffazione dei prodotti e le tecniche di greenwashing[69].
A corroborare tali progetti è intervenuta l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite, la quale ha posto l’attenzione sull’ottimizzazione delle nuove tecnologie per raggiungere la sicurezza alimentare, migliorare l’alimentazione e promuovere l’agricoltura sostenibile[70].
4.- La tecnologia blockchain per rilanciare l’eccellenza agroalimentare italiana?
L’ingresso delle nuove tecnologie nel settore agroalimentare dimostrano come il Made in Italy possa porsi sul mercato internazionale garantendo dimensioni fondamentali, quali qualità, origine e sostenibilità ambientale ed etica.
La blockchain, infatti, promette di istituire un sistema di certificazione dei dati intrinsecamente affidabili e sganciati dal ruolo di un’autorità centrale competente ad attribuire loro valore giuridico. Ciò si traduce: in una effettiva tutela delle denominazioni protette, valorizzando, tra l’altro, gli alimenti rispettosi di precisi standard qualitativi di produzione; in una maggiore capacità di controllo e monitoraggio dei prodotti da parte delle autorità, per un reale contrasto dei fenomeni di Italian sounding; in un incremento della trasparenza e della tracciabilità della supply chain, a vantaggio anzitutto di quelle piccole e medie imprese interessate a promuovere il valore della propria produzione all’interno della stessa filiera e verso il consumatore finale sul territorio nazionale ed internazionale.
A tal fine, il Ministero dello Sviluppo Economico (MISE)[71], ha avviato nel 2019 il progetto pilota «La Blockchain per la tracciabilità del Made in Italy»[72], realizzato con la collaborazione di IBM[73] e delle associazioni ed aziende coinvolte. Le analisi e la sperimentazione effettuate evidenziano come la realizzazione di libri mastri pubblici decentralizzati possano supportare la tracciabilità e valorizzazione del Made in Italy.
Questo scenario risulta possibile grazie agli attributi propri di tale tecnologia.
La possibilità di identificare la provenienza degli asset e la loro storia completa, ripercorrendo a ritroso le catene di blocchi informativi, è tra i benefici legati al miglioramento del processo di tracciabilità. Questo permette, altresì, di contrastare eventuali fenomeni di contraffazione delle merci e di concorrenza sleale, valorizzando la qualità dei prodotti realizzati.
Non mancano, poi, benefici in termini di efficientamento nella gestione di scorte e riduzione degli sprechi alimentari, grazie alla raccolta e condivisione di una grandissima mole di dati, promuovendo un incremento sostenibile della redditività.
Sotto il profilo della sicurezza e protezione dei dati, inoltre, «la segregazione degli accessi e le tecniche di crittografia implementate impediscono l’accesso non autorizzato alla rete e assicurano che i partecipanti siano coloro che affermano di essere»[74].
Se, dunque, l’innovazione digitale è destinata a coprire un ruolo sempre più rilevante nel settore agroalimentare, emergono sfide e rischi da affrontare sul piano tecnico-giuridico. Compito del giurista, dunque, è valutare l’impatto che le nuove tecnologie sono destinate a produrre sulle categorie giuridiche tradizionali.
Le principali difficoltà emergono sotto il profilo della responsabilità.
In particolare, i principi di decentralizzazione, disintermediazione e pseudonimia dalla blockchain pongono un problema di individuazione del soggetto responsabile in caso di inadempimenti inerenti una transazione o errori nella sua esecuzione. Anche nell’ipotesi in cui si adottasse un sistema che consenta di individuare un soggetto ‘formalmente’ responsabile, ad esempio quello di tipo permissioned, che richiede l’identificazione degli attori partecipanti, il dibattito verte sulla natura giuridica di tale responsabilità. Da un lato, chi ritiene sufficiente richiamare gli strumenti giuridici elaborati tradizionalmente nell’ambito del diritto dei contratti e della responsabilità civile, dall’altro, chi rinviene la necessità di elaborazioni concettuali ex novo[75].
Ulteriore profilo problematico attiene la protezione dei dati personali.
La natura decentralizzata della tecnologia de quo, che consente di rendere visibile le informazioni a tutti gli attori della catena, comporta una forte difficoltà di inquadramento nell’ambito di applicazione del Regolamento Europeo n. 679/2016 (General Data Protection Regulation – GDPR), concepito per un sistema con intermediari centralizzati (titolari e responsabili del trattamento)[76].
In primo luogo, occorre chiedersi se gli asset raccolti nel sistema di blockchain possono o meno essere qualificati come ‘dati personali’[77] ai sensi del GDPR.
Ebbene, i dati ai quali sia applicato un processo di pseudonimizzazione[78], mediante un sistema crittografico tipico di tali tecnologie, potrebbero ugualmente essere attribuiti ad una persona fisica identificabile mediante informazioni aggiuntive e, pertanto, soggetti al Regolamento Europeo n. 679/2016[79].
In secondo luogo, emergono criticità con riferimento al diritto all’oblio[80] che si pone in una evidente tensione con la perpetuità e l’immodificabilità di tali sistemi.
In un’ottica de iure condendo, si ravvisa, pertanto, la necessità di un intervento del legislatore tanto a livello nazionale, quanto sovranazionale, che tenga conto delle peculiarità dei nuovi fenomeni.
Abstract.- La globalizzazione dei mercati e delle filiere agroalimentari pone urgenti questioni di lotta ai fenomeni di c.d. Italian sounding e di consumer protection.L’attuale scenario storico impone, pertanto, un ripensamento del concetto di qualità, di sicurezza alimentare e delle tecniche tradizionali di tracciamento. In tale contesto, l’ingresso delle nuove tecnologie nel settore agroalimentare rappresenta una valida soluzione a tutela del patrimonio agroalimentare nostrano, tanto da essere ormai in voga l’espressione “agrifood tech”.
– The globalization of markets and agrifood chains raises urgent questions for the fight against the phenomena of so-called Italian sounding and consumer protection. The current historical scenario, therefore, requires a rethinking of the concept of quality, food safety, and traditional tracking techniques. In this context, the entry of new technologies into the agrifood sector represents a valid solution to protect our agri-food heritage, so much so that the expression “agrifood tech” is now in vogue.
* Dottoranda di ricerca in Scienze Giuridiche, curriculum giuspubblicistico (XXXVII Ciclo), presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche (Scuola di Giurisprudenza) dell’Università degli Studi di Salerno.
[1] Cfr. F. Adinolfi, Produzione e consumo alimentare: trend e prospettive del sistema agroalimentare nazionale, in A. Natalini (cur.), Frodi agroalimentari: profili giuridici e prospettive di tutela, Milano 2010, 10 ss. L’Autore evidenzia come l’Italia sia il paese con più alto numero di produttori agroalimentari.
[2] A. Germanò, La qualità dei prodotti agro-alimentari secondo la Comunità Europea, in Riv. dir. agr.,1 (2009) 363. A tal proposito, si veda E. Zanon, La qualità dei prodotti alimentari con particolare attenzione alla disciplina delle denominazioni di origine e delle indicazioni di provenienza, in Riv. dir. agr., 1 (1997) 495 ss., secondo la quale, la polivalenza contenutistica del concetto di ‘qualità’ dipende altresì dai diversi interessi coinvolti nella sua promozione: per il produttore agricolo, si identifica negli attributi materiali intrinseci dei suoi prodotti (ambiente e tecniche produttive ovvero gli attributi materiali del prodotto); per il trasformatore, è determinata dalla corrispondenza delle materie prime alle specifiche necessità del processo di fabbricazione o conservazione (c.d. valenza tecnologica o d’uso); per il consumatore finale, si individua con il giudizio di valore nei confronti dell’insieme delle caratteristiche che denotano il prodotto.
[3] Si veda il Libro Verde sulla qualità dei prodotti agricoli: norme di prodotto, requisiti di produzione e sistemi di qualità, 15 ottobre 2008, www.senato.it: «‘Qualità’ vuol dire soddisfare le aspettative dei consumatori. Riferite ai prodotti agricoli, le qualità di cui si parla nel presente Libro Verde sono le caratteristiche del prodotto, quali i metodi di produzione utilizzati o il luogo di produzione, che il produttore desidera far conoscere e che il consumatore vuole conoscere». In tal senso, anche G. Sciancalepore, Qualità dei prodotti, frode di etichette, unfair competition, in Scritti di Diritto privato comparato, Torino 2021, 94.
[4] «In un’ottica soggettiva, invece, il termine qualità indica la superiorità del prodotto; il giudizio espresso sulla qualità dipende perciò dall’importanza che il soggetto assegna, nell’ambito del suo ordine delle preferenze, ad ogni attributo del bene. Dunque si identifica con la scelta, appunto, la preferenza dell’individuo. Queste valutazioni soggettive mutano spesso, e talvolta radicalmente, sia nel tempo che nello spazio. In chiave soggettiva, perciò, qualità non è un concetto assoluto ma potrebbe essere considerato un giudizio di valore di natura evolutiva». Così E. Zanon, La qualità dei prodotti alimentari con particolare attenzione alla disciplina delle denominazioni di origine e delle indicazioni di provenienza, cit., 496.
[5] La politica agricola comune (PAC), nasce nel contesto europeo del dopoguerra (1962) ed è frutto di una stretta intesa tra agricoltura e società, al fine di perseguire i seguenti obiettivi: sostenere gli agricoltori e migliorare la produttività agricola, garantendo un approvvigionamento stabile di alimenti a prezzi accessibili; tutelare gli agricoltori dell’Unione europea affinché possano avere un tenore di vita ragionevole; aiutare ad affrontare i cambiamenti climatici e la gestione sostenibile delle risorse naturali; preservare le zone e i paesaggi rurali in tutta l’UE; mantenere in vita l’economia rurale promuovendo l’occupazione nel settore agricolo, nelle industrie agroalimentari e nei settori associati (art. 39 TFUE, già 33).
[6] E. Zanon, La qualità dei prodotti alimentari con particolare attenzione alla disciplina delle denominazioni di origine e delle indicazioni di provenienza, cit., 501 ss., che ricostruisce l’evoluzione della politica agricola comunitaria, segnata da esigenze filo-concorrenziali e di tutela del consumatore.
[7] La riforma Mc Sharry del 1992, con la quale ha origine un effettivo indirizzo di politica legislativa relativa alle produzioni agroalimentari di qualità, coincide con il summit sulla Terra (Rio de Janeiro), che introduce il principio dello sviluppo sostenibile, inteso come «soddisfacimento dei bisogni della generazione presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di realizzare i propri». Per un approfondimento, sull’evoluzione del concetto di sostenibilità, si veda G. Sciancalepore, Le dimensioni della sostenibilità, in Iura & Legal System, 7 (2020/1) 1 ss.
[8] Così R. Franceschelli, Trattato di diritto industriale, II ed., Milano 1960, 509.
[9] Così M. Libertini, Diritto della concorrenza dell’Unione europea, Milano 2014, 2 ss.
[10] In tal senso I. Canfora, La politica della qualità dei prodotti agroalimentari dell’UE, in P. Borghi, I. Canfora, A. Di Lauro, L. Russo (curr.), Trattato di diritto alimentare italiano e dell’Unione Europea, Milano 2021, 426.
[11] L’ambito di applicazione della normativa è «ai prodotti agricoli destinati al consumo umano elencati nell’allegato I del trattato e a un elenco di prodotti non compresi in tale allegato e strettamente connessi alla produzione agricola o all’economia rurale» (considerando n. 15).
[12] Si segnala, infatti, come i Regolamenti (CEE) 2081/92 e 2082/92 facevano riferimento nel titolo alle «indicazioni geografiche e delle denominazioni d’origine» e alle «attestazioni di specificità».
[13] Si precisa che, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea con sentenza dell’8 settembre 2009 in causa n. C-478/07 ha affermato la competenza esclusiva dell’UE a registrare le denominazioni di origine e le indicazioni geografiche. Per un commento, si veda F. Gencarelli, Il caso «Budweiser»: competenze comunitarie e nazionali in materia di indicazioni geografiche di prodotti alimentari, in Dir. giur. agr. amb., 4 (2010) 237 ss.
[14] Nell’impianto originario la base giuridica di tale normativa si rinveniva in quella propria della PAC (ex art. 39 TFUE, già 33). Cfr. I. Canfora, La politica della qualità dei prodotti agroalimentari dell’UE, cit., 432.
[15] Così il considerando n. 1 del Regolamento (UE) 1151/2012: «La qualità e la varietà della produzione agricola, ittica e dell’acquacoltura dell’Unione rappresentano un punto di forza e un vantaggio competitivo importante per i produttori dell’Unione e sono parte integrante del suo patrimonio culturale e gastronomico vivo» e, ancora, il considerando n. 4: «Contribuire attraverso regimi di qualità a ricompensare gli sforzi dispiegati dai produttori per ottenere una gamma diversificata di prodotti di qualità può avere ricadute positive per l’economia rurale. Ciò vale soprattutto per le aree svantaggiate, le zone di montagna e le regioni ultraperiferiche, nelle quali il settore agricolo ha un peso economico notevole e i costi di produzione sono elevati. Pertanto i regimi di qualità sono in grado di fornire un contribuito e un complemento alla politica di sviluppo rurale e alle politiche di sostegno dei mercati e dei redditi nell’ambito della politica agricola comune (PAC). In particolare essi possono fornire un contributo alle aree il cui settore agricolo ha un peso economico più rilevante e, specialmente, alle aree svantaggiate».
[16] Si veda il considerando n. 2: «Sempre di più, i cittadini e i consumatori dell’Unione chiedono qualità e prodotti tradizionali e si preoccupano del mantenimento della varietà della produzione agricola dell’Unione. Queste esigenze determinano una domanda di prodotti agricoli o alimentari con caratteristiche specifiche riconoscibili, in particolar modo quelle connesse all’origine geografica». Inoltre, si veda il considerando n. 18: «La protezione delle denominazioni di origine e delle indicazioni geografiche persegue gli obiettivi specifici di garantire agli agricoltori e ai produttori un giusto guadagno per le qualità e caratteristiche di un determinato prodotto o del suo metodo di produzione, e di fornire informazioni chiare sui prodotti che possiedono caratteristiche specifiche connesse all’origine geografica, permettendo in tal modo ai consumatori di compiere scelte di acquisto più consapevoli».
[17] Una deroga è prevista dal successivo paragrafo 3: «taluni nomi sono equiparati a denominazioni di origine anche se le materie prime dei relativi prodotti provengono da una zona geografica più ampia della zona geografica delimitata, o diversa da essa, purché siano soddisfatte le seguenti condizioni: a) la zona di produzione delle materie prime è delimitata; b) sussistono condizioni particolari per la produzione delle materie prime; c) esiste un regime di controllo atto a garantire l’osservanza delle condizioni di cui alla lettera b); e d) le suddette denominazioni di origine sono state riconosciute come denominazioni di origine nel paese di origine anteriormente al 10 maggio 2004. Ai fini del presente paragrafo possono essere considerati materie prime soltanto gli animali vivi, le carni e il latte».
[18] «Il cuore del regolamento è nella ‘protezione’ del nome. È il nome che è protetto e non il prodotto. Il prodotto il cui nome è protetto può essere imitato. Quindi, non è protetto in quanto prodotto. Ma, se imitato, non potrà essere commercializzato sotto il nome protetto», così M. Benelli, L. Cianfoni, La politica di qualità dei prodotti agricoli e alimentari dell’Unione Europea, in Ist. Federalismo, 1 (2015) p. 137.
[19] Art. 7, par. 1: «1. Una denominazione di origine protetta o un’indicazione geografica protetta deve rispettare un disciplinare che comprende almeno i seguenti elementi: a) il nome da proteggere come denominazione di origine o indicazione geografica, quale utilizzata nel commercio o nel linguaggio comune, e solo nelle lingue attualmente o storicamente utilizzate per descrivere il prodotto specifico nella zona geografica delimitata; b) la descrizione del prodotto, comprese se del caso le materie prime, nonché le principali caratteristiche fisiche, chimiche, microbiologiche od organolettiche del prodotto; c) la definizione della zona geografica delimitata riguardo al legame di cui alla lettera f), punto i) o punto ii), del presente paragrafo e, se del caso, gli elementi che indicano il rispetto delle condizioni di cui all’articolo 5, paragrafo 3; d) gli elementi che dimostrano che il prodotto è originario della zona geografica delimitata di cui all’articolo 5, paragrafo 1 o 2; e) la descrizione del metodo di ottenimento del prodotto e, se del caso, dei metodi locali, leali e costanti nonché informazioni relative al confezionamento, quando il gruppo richiedente stabilisce in tal senso e fornisce sufficienti motivazioni specifiche per prodotto per cui il confezionamento deve aver luogo nella zona geografica delimitata per salvaguardare la qualità, garantire l’origine o assicurare il controllo, tenendo conto del diritto dell’Unione, in particolare della libera circolazione dei prodotti e della libera prestazione di servizi; f) gli elementi che stabiliscono: i) il legame fra la qualità o le caratteristiche del prodotto e l’ambiente geografico di cui all’articolo 5, paragrafo 1; o ii) se del caso, il legame fra una data qualità, la reputazione o un’altra caratteristica del prodotto e l’origine geografica di cui all’articolo 5, paragrafo 2; g) il nome e l’indirizzo delle autorità o, se disponibili, il nome e l’indirizzo degli organismi che verificano il rispetto delle disposizioni del disciplinare a norma dell’articolo 37, e i relativi compiti specifici; h) qualsiasi regola specifica per l’etichettatura del prodotto in questione».
[20] Cfr. P. Altili, C. Losavio, I prodotti agroalimentari tradizionali: frammenti di una disciplina incompleta, in Riv. dir. agr., 4 (2010) 637. Le Autrici evidenziano come «un prodotto agroalimentare è tipico se ha le ‘qualità’, le caratteristiche proprie del suo tipo e che lo rendono ‘originale’ e distinto rispetto agli altri prodotti appartenenti alla stessa categoria».
[21] F. Adornato, Le “declinazioni della qualità”: una nota introduttiva, in Riv. dir. alim., 3 (2009) 5.
[22] B. Giovanola, L’etica della qualità, in Riv. dir. alim., 3 (2009) 8.
[23] In ordine alla relazione tra etica ed economia ed alle diverse posizioni espresse sulla nozione di responsabilità sociale, si veda D. Henderson, Misguided Virtue. False Notions of Corporate Social Responsability, London 2001, passim.
[24] Cfr., Comunicazione della Commissione Europea,“Libro verde: Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese”, 18 luglio 2001; Id., “Responsabilità sociale delle imprese: un contributo delle imprese allo sviluppo sostenibile”, 2 luglio 2002; Id., “Il partenariato per la crescita e l’occupazione: fare dell’Europa un polo di eccellenza in materia di responsabilità sociale delle imprese”, 22 marzo 2006.
[25] Cfr. B. Giovanola, L’etica della qualità, cit., 9.
[26] Una blockchain è un registro (ledger) costituito da diversi nodi (block) collegati in maniera sequenziale e immutabile tra di loro e che realizza una catena (chained), contenente informazioni digitali di qualsiasi tipo. Il sistema è stato ideato da Satoshi Nakamoto con l’intento di creare una nuova monete digitale: Bitcoin. Cfr. Satoshi Nakamoto, Bitcoin: A Peer-to-Peer Electronic Cash System, www.bitcoin.org.pdf.
[27] Si utilizza, altresì, l’espressione “agricoltura 4.0” per indicare la digital transformation nell’agroalimentare. Per un approfondimento sul carattere della disciplina agroalimentare a fronte delle nuove tecnologie, si veda AIDA-IFLA, Innovation in agri-food law between technology and comparison, Padova 2019.
[28] I componenti del sistema sono: il nodo, ossia il partecipante alla blockchain, costituito fisicamente dal suo server; la transazione, costituita dai dati che rappresentano i valori oggetto di scambio(c.d. asset) e che necessitano di essere verificati, approvati e poi archiviati; il blocco, rappresentato dal raggruppamento di un insieme di transazioni unite per essere verificate, approvate e poi archiviate dai partecipanti; un hash, operazione che permette di mappare una stringa di testo e/o numerica di lunghezza variabile in una stringa unica ed univoca di lunghezza determinata; il ledger, registro pubblico nel quale vengono annotate con la massima trasparenza e in modo immutabile tutte le transazioni effettuate in modo ordinato e sequenziale. Il ledger è costituito dall’insieme dei blocchi che sono tra loro incatenati tramite una funzione di crittografia e grazie all’uso di hash. Cfr. M. Krogh, Transazioni in valute virtuali e rischi di riciclaggio. Il ruolo del notaio, in Notariato, 2 (2018) 159.
[29]Così G. Remotti, Possibili funzioni ausiliare delle tecnologie blockchain per marchi e indicazioni di origine: tracciabilità della filiera agroalimentare. Dinamica competitiva e meccanica mercantile, in Medialaws–Rivista di diritto dei media, 3 (2021) 42.
[30] Il sistema permissioned ledger, consente solo ad alcune specifiche categorie di attori, esplicitamente autorizzati, di svolgere attività di validazione. Si differenzia dal sistema permissionless, in cui tutti gli attori che possono accedere ai dati, partecipano all’attività di validazione. Cfr. A. Perna, Le origini della blockchain, in R. Battaglini, M. T. Giordano (curr.), Blockchain e Smart Contract. Funzionamento, profili giuridici e internazionali, applicazioni pratiche, Milano 2019, 21 ss.
[31] La blockchain è basata sull’approccio peer-to-peer (P2P), ossia un’architettura di rete informatica, i cui nodi sono caratterizzati da una gerarchia flessibile. La sua peculiarità è l’assenza di un server/nucleo centrale e, dunque, non vi è nulla che possa essere spento o attaccato. Ogni nodo che partecipa ad una blockchain ha una copia dell’intero registro: per questo si parla di decentralizzazione. Cfr. A Perna, Le origini della blockchain, in R. Battaglini, M. T. Giordano (curr.), cit., Milano 2019, 9 ss.
[32] Tutte le transazioni, per essere effettuate, devono essere condivise in rete ed accettate. Una volta validate, le transazioni sono immodificabili in quanto per modificare fraudolentemente le informazioni dovrebbero essere modificati contemporaneamente i nodi della rete. Infatti, la modifica di un dato richiede il consenso dei partecipanti della rete. Il meccanismo di consenso può essere a semplice (id est, a maggioranza) oppure complesso. Quest’ultimo, in particolare, può essere: proof of work, se si richiede al partecipante di risolvere un problema matematico complesso per verificare la transazione; proof of stake, se l’utente garantisce la validità della transazione impegnando una quota delle proprie criptovalute; proof of authority, se si impegna la propria reputazione di ‘validatori onesti’, che rischierebbero di perdere, insieme con gli incentivi a essa collegati, laddove validassero transazioni non corrette. Cfr. A Perna, Le origini della blockchain, in R. Battaglini, M. T. Giordano (curr.), cit., Milano 2019, 22.
[33] Il collegamento con il territorio può essere diretto, come nella disciplina dei marchi geografici e delle denominazioni d’origine, o indiretto, nel caso delle specialità tradizionali garantite, le quali «esaltano i procedimenti, gli usi, e i caratteri di un alimento che sono espressione del ‘sapere’ di un territorio»; «anche la disciplina sul metodo di produzione biologica contiene richiami al territorio, diretti o indiretti» prendendo in considerazione un certo uso del territorio e richiedendo l’indicazione delle materie prime. Cfr. A. Di Lauro, Il territorio nella comunicazione commerciale, in E. Cristiani, E. Sirsi, G. Strambi (curr.), Regole delle produzioni locali e marcato globale, Edizioni ETS, Pisa 2010.
[34] P. Barton Hutt, R. A. Merril, L. A. Grossman, Food and Drug Law: Cases and Materials, IV ed., Foundation Press, St. Paul Mn. 2014.
[35] Non si rinviene, allo stato attuale, una nozione unitaria di Made in Italy. Lo sottolinea la più attenta dottrina secondo cui: «Non si è ancora giunti alla formulazione di un concetto unitario che sia dotato di autonoma fisionomia giuridica e capace di garantire uniformità di disciplina alla materia. Se vi è chi presenta il made in Italy come un marchio collettivo di qualità idoneo a conferire una forza aggiuntiva al prodotto, pur in mancanza di registrazione, o chi ne delinea un inquadramento entro gli istituti di diritto industriale, la giurisprudenza chiarisce come esso non assicuri la presenza di specifiche caratteristiche, limitandosi ad indicare l’ubicazione in un determinato Paese dell’impresa che lo ha realizzato. Sul punto, un’interessante pronunzia del 2012 non ha esitato a ritenere ad esempio che la commercializzazione di concentrato di pomodoro produzione cinese, confezionato ed etichettato con la indicazione di prodotti made in Italy, configuri il reato di cui all’art. 517 c.p. in relazione all’art. 4, comma 49, l. n. 350 del 2003, in quanto la sola aggiunta di acqua e sale nonché la pastorizzazione, l’inscatolamento e il confezionamento non costituiscono una trasformazione sostanziale e neppure rivestono alcuna giustificazione economica, posto che l’unica motivazione di tale strategia imprenditoriale è quella di apporre il ‘marchio’ su prodotti di provenienza non nazionale, acquistati a basso costo e di minore appetibilità commerciale». Così G. Sciancalepore, Qualità dei prodotti, frode di etichette, unfair competition, cit., Torino 2021, 95.
[36] Si tratta di un fenomeno così diffuso da sottrarre al nostro export, secondo le stime quantificate da The European House–Ambrosetti e Assocamerestero, poco meno di 80 miliardi, www.assocamerestero.it.
[37] Art. 2, par. 2, lett. i).
[38] F. Romeo, Qualità dei prodotti agroalimentari, tutela del consumatore e food safety, in F. Romeo (cur.), La difesa del made in italy nel settore agroalimentare fra spinte protezionistiche e crisi pandemica, Torino 2021, 22.
[39] In argomento si veda B. Pasa, Forma Informativa, in Dig. disc. priv., sez. civ., V ed., Torino 2010, 651 ss.; G. Sciancalepore, Qualità dei prodotti, frode di etichette, unfair competition, cit., Torino 2021, 100.
[40] C. Cosentino, Environmental claims: quando la disinformazione “si veste di verde”, in Comp. e dir. civ., 1 (2023) 84 ss.
[41] Considerando n. 16 del Regolamento UE 1169/2011.
[42] Art. 2, lettera a).
[43] Sull’importanza dell’informazione nei rapporti di scambio, si veda A. G. Parisi, L’educazione e l’informazione del consumatore, in P. Stanzione, A. Musio (curr.), La tutela del consumatore, in Trattato di diritto privato, diretto da M. Bessone, III ed., Torino 2009. Cfr. P. Stanzione, G. Sciancalepore, Prassi contrattuale e tutela del consumatore, Milano 2004, passim.
[44] Il considerando n. 29 ne spiega il contenuto : «Le indicazioni relative al paese d’origine o al luogo di provenienza di un alimento dovrebbero essere fornite ogni volta che la loro assenza possa indurre in errore i consumatori per quanto riguarda il reale paese d’origine o luogo di provenienza del prodotto. In tutti i casi, l’indicazione del paese d’origine o del luogo di provenienza dovrebbe essere fornita in modo tale da non trarre in inganno il consumatore e sulla base di criteri chiaramente definiti in grado di garantire condizioni eque di concorrenza per l’industria e di far sì che i consumatori comprendano meglio le informazioni relative al paese d’origine e al luogo di provenienza degli alimenti».
[45] A. Germanò, L’etichettatura di origine, in P. Borghi, I. Canfora, A. Di Lauro, L. Russo (curr.), cit., 334. L’Autore evidenzia che, il Regolamento UE 1169/2011 rinvia, per definire il «luogo d’origine» all’art. 23 del Codice doganale comunitario del 1992, nonostante questo fosse già stato abrogato dal Regolamento (CE) 450/2008 (Codice doganale aggiornato) e che, pertanto, tale rinvio è da intendersi di natura “materiale”, divenendo la norma richiamata parte del contenuto della disposizione richiamante. Dunque, il luogo d’origine oggetto dell’informazione alimentare è quello «in cui sono raccolti i vegetali, allevati gli animali e in cui sono praticate la caccia e la pesca». Difatti, «la Corte di giustizia 4 settembre, C-686/17, Zentrale, ha esaminato l’origine di funghi nati in cassette di torba e calcare su un compost predisposto in Belgio in cui, in Olanda era stato iniettato il micelio, cassette trasferite in Germania pochi giorni prima che ivi venisse fatta la raccolta, funghi che erano stati commercializzati con l’etichetta “Origine: Germania”. La Corte, interpellata sulla questione se i funghi coltivati, che vengono raccolti nel territorio nazionale abbiano un’origine nazionale anche nel caso in cui fasi sostanziali della produzione abbiano avuto luogo in altri Stati membri, ha risposto affermativamente, richiamando, appunto, l’art 23 del Codice doganale del 1992».
[46] V. artt. 515 a 517 quinquies c.p.
[47] Cfr. Cass. pen., 14/04/2005, n. 17712.
[48] A. Di Lauro, Nuove regole per le informazioni sui prodotti alimentari e nuovi analfabetismi. La costruzione di una “responsabilità del consumatore”, in Riv. dir. agr., 2 (2012) 23.
[49] L. Costato, I principi fondanti il diritto alimentare, in Rivista di diritto alimentare, 1 (2007) 1, secondo il quale «il susseguirsi di norme – nazionali, comunitarie ma anche dettate da trattati internazionali collegati alla globalizzazione quali quelle contenute negli Accordi che accompagnano quello costitutivo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio – ha comportato un progressivo evidenziarsi della necessità di fare perno sulla tutela del consumatore a fronte della grande circolazione dei prodotti alimentari». La legislazione alimentare si configura come «un complesso di regole giuridiche di origine nazionale, comunitaria e internazionale informate alla finalità di proteggere il consumatore di alimenti. La protezione si manifesta, in via generale, vietando la messa in circolazione di alimenti i cui vizi sono direttamente dannosi per chiunque, anche se assunti in modiche quantità».
[50] È noto che una prima definizione della nozione di traceability si rinviene negli standard ISO 8402 del 1987, ripresi nell’edizione del 1994, secondo cui «the ability to retrieve hystory, use or location of an entity by means of recorded identifications». Cfr. F. Albasinni, Strumentario di diritto alimentare europeo, III ed., Torino 2018, 181 ss.
[51] Documento di lavoro dei servizi della Commissione sulla tracciabilità e sull’etichettatura degli OGM e dei prodotti derivati da OGM (ENV/620/2000).
[52] Tra le più significative si veda quella dell’International Organization for Standardization che ha elaborato lo standard ISO 22000:2005, il quale specifica i requisiti per un sistema di gestione della sicurezza alimentare in cui un’organizzazione della filiera alimentare necessita di dimostrare la propria capacità di controllo dei pericoli sulla sicurezza alimentare in modo da assicurare che gli alimenti siano sicuri al momento del consumo umano.
[53] La Commissione del Codex Alimentarius è stata istituita dall’Organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura (FAO) e dall’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) nel 1963, come organo sussidiario di entrambe le organizzazioni. Fin dalla sua istituzione, la Commissione, formata da 188 membri, è stata incaricata della creazione del Codex Alimentarius: una raccolta di standard alimentari definiti in modo uniforme. Il Codex ha due obiettivi principali legati all’alimentazione: «to protect the health of consumers, and to assure fair practices in food trade». Si veda E. Kimbrell, What is Codex Alimentarius?, in AgBioForum, 3 (2000) 197-202.
[54] F. Pernazza, P. P. Picarelli, La tracciabilità dei prodotti alimentari: finalità, tecniche e modelli regolatori, in L. Scaffardi, V. Zeno-Zencovich (curr.), Cibo e diritto. Una prospettiva comparata, XXV Colloquio dell’Associazione Italiana di Diritto Comparato, tenutosi a Parma nel maggio 2019, Roma 2020, 498-499; in particolare, il Safe Food for Canadians Act (SFCA) e il Safe Food for Canadians Regulations (SFCR), riordinano la precedente disciplina in materia alimentare prendendo le mosse dal Codex Alimentarius, al fine di adeguare la normativa agli standard internazionali.
[55] Art. 18, par. 1.
[56] I termini tracciabilità e rintracciabilità, costituiscono entrambi la traduzione del termine inglese traceability e, pertanto, utilizzati in modo interscambiabile. Si veda P. Di Martino, Rintracciabilità obbligatoria e rintracciabilità volontaria nel settore alimentare, in Dir. giur. agr. (2005) 141 ss., il quale indica che i termini tracciabilità e rintracciabilità designano due movimenti diversi lungo la filiera produttiva: la tracciabilità parte dalle materie prime, dai semilavorati e dalle risorse, fino ad arrivare al prodotto finito; la rintracciabilità, invece, compie un percorso a ritroso del processo produttivo attraverso la documentazione precedentemente raccolta.
[57] Art. 3, par. 1, n. 15.
[58] F. Pernazza, P. P. Picarelli, La tracciabilità dei prodotti alimentari: finalità, tecniche e modelli regolatori, in L. Scaffardi, V. Zeno-Zencovich (curr.), cit., 501. In tal senso, anche F. Prete, La tracciabilità, in P. Borghi, I. Canfora, A. Di Lauro, L. Russo (curr.), Trattato di diritto alimentare italiano e dell’Unione Europea, Milano 2021, 250. L’autrice precisa come l’approccio “one step back – one step forward” dispone «un sistema che consenta di individuare i fornitori e i clienti diretti dei loro prodotti», stabilendo un collegamento ‘fornitore-prodotto’ e un collegamento ‘cliente-prodotto’.
[59] L’applicazione in via definitiva richiede la ratifica da parte dei Parlamenti nazionali degli Stati membri UE e ciò consentirà altresì l’attuazione delle disposizioni che ricadono sotto le competenze di questi ultimi. In Francia, tuttavia, il Commissario europeo Pierre Moscovici in audizione nella commissione per gli affari esteri dell’Assemblea nazionale francese ha dichiarato che «anche se un parlamento nazionale o regionale dell’UE dovesse votare contro la ratifica del trattato, il CETA resterebbe comunque in vigore nella sua forma attuale e provvisoria, come già accade dal 21 settembre 2017», www.lantidiplomatico.it.
[60] Cfr. F. Pernazza, P. P. Picarelli, La tracciabilità dei prodotti alimentari: finalità, tecniche e modelli regolatori, in L. Scaffardi, V. Zeno-Zencovich (curr.), cit., 506. Gli autori evidenziano come l’esenzione dagli obblighi di tracciabilità dei produttori locali potrebbe generare posizioni di vantaggio «sia rispetto al suo concorrente nazionale coinvolto nel commercio interprovinciale, sia nei confronti degli operatori coinvolti nel commercio internazionale».
[61] Per un approfondimento della legislazione alimentare statunitense si veda M. T. Roberts, US Food Law: Responding to Changing Social Conditions, in L. Costato, F. Albasinni (curr.), European And Global Food Law, Milano 2016, 57 ss.
[62] In merito ai piani di controllo di sicurezza alimentare, le linee guida sono racchiuse nel Regolamento definitivo “Current Good Manufacturing Practice, Hazard Analysis, and Risk-Based Preventive Controls for Human Food; Final Rule”, entrato in vigore a gennaio 2016. I controlli preventivi sugli alimenti previsti dal Final Rule si applicano a ditte statunitensi e straniere attive nella produzione, imballaggio e/o stoccaggio di alimenti destinati al consumo negli Stati Uniti, ossia obbligate ad effettuare la registrazione ai sensi della legge anti-bioterrorismo. Il Final Rule prevede che le aziende adottino un sistema di procedure di controllo preventivo, basate sull’analisi del rischio, H.A.R.P.C. (Hazard Analisys and Risk Based Preventive Controls), che andranno ad integrare il piano H.A.C.C.P (Hazard Analysis on Critical Control Points), imposto dalla normativa europea. Il FSMA ha poi introdotto un programma cogente, che pone in capo agli importatori le medesime responsabilità civili e penali dei produttori, in termini di sicurezza alimentare. Trattasi del FSVP, Foreign Supplier Verification Program, cioè un programma di verifica dei fornitori esteri da parte degli importatori statunitensi. Per la prima volta, anche gli importatori avranno quindi la responsabilità esplicita di verificare che i fornitori stranieri eseguano adeguati controlli preventivi, al fine di garantire che l’alimento non sia adulterato o etichettato in modo errato; che sia stato prodotto in conformità di tutti i requisiti posti dal programma; che rispetti tutti i parametri di sicurezza vigenti sul territorio, www.fda.gov.
[63] Le strutture alle quali sia stata sospesa la registrazione avranno il divieto di distribuire prodotti alimentari (section 102).
[64] Si noti che a differenza della c.d. general food law europea, in cui i requisiti di sicurezza degli alimenti sono indicati con due formule generiche (dannosità alla salute e inadattabilità al consumo umano) di difficile lettura, mentre l’art. 402 del FSMA specifica esattamente quando un alimento è “adulterated”, lasciando così poco spazio ad interpretazioni. Cfr. F. Bruno, L’accreditamento degli importatori di prodotti alimentari in USA, in Riv. dir. alim., 1 (2014) 19.
[65] Il principio di precauzione non opera in modo vincolante nella law food canadese e, difatti, è assente nel trattato CETA.
[66] Art. 7, par.1, Regolamento (CE) n. 178/2002: «Qualora, in circostanze specifiche a seguito di una valutazione delle informazioni disponibili, venga individuata la possibilità di effetti dannosi per la salute ma permanga una situazione d’incertezza sul piano scientifico, possono essere adottate le misure provvisorie di gestione del rischio necessarie per garantire il livello elevato di tutela della salute che la Comunità persegue, in attesa di ulteriori informazioni scientifiche per una valutazione più esauriente del rischio».
[67] La Final Rule richiede alle realtà coinvolte di condividere le informazioni con altre realtà che fanno parte della loro catena di approvvigionamento e poiché questo richiederà di implementare nuove specifiche attività di gestione dei dati (ad esempio dotandosi di sistemi informatici a supporto della gestione della tracciabilità), è stato ritenuto che il modo più efficace ed efficiente per attuare la legge fosse quello che consentiva a tutte le realtà soggette all’applicabilità di poter essere conformi entro la stessa data. La data di conformità per tutte le realtà soggette agli obblighi di tenuta delle registrazioni è il 20 gennaio 2026, www.fda.gov.
[68] In particolare: il EU Blockchain Obeservatory and Forum istituito dalla Commissione europea (2018); la European Blockchain Partnership sottoscritta da 21 Stati Membri e dalla Norvegia; la Risoluzione del Parlamento europeo, “Tecnologie di registro distribuito e blockchain: creare fiducia attraverso la disintermediazione” (P8_TA(2018)0373) del 3 ottobre 2018, che segue il report “Come la tecnologia blockchain può cambiarci la vita”(2017), frutto dell’analisi svolta dal Servizio di Ricerca del Parlamento Europeo (ERPS); il Parere del Comitato economico e sociale europeo sul tema “Blockchain e mercato unico dell’UE le prossime tappe”(2020/C 47/03) dell’11 febbraio 2020, che ne contiene una definizione.
[69] Il termine greenwashing designa «l’uso distorto di green o environmental claims, meramente finalizzato ad un ritorno d’immagine e privo di un adeguato collegamento con le politiche imprenditoriali effettivamente seguite» che «pone delicate e urgenti questioni di consumer protection e di distorsione dei meccanismi concorrenziali». Per un’attenta disamina di tale fenomeno, si veda C. Cosentino, Environmental claims: quando la disinformazione “si veste di verde”, cit., 1 (2023) 79 ss.
[70] www.unric.org.it
[71] Il 4 novembre 2022 il Consiglio dei ministri approva il decreto-legge che dispone il riordino delle attribuzioni dei ministeri e le nuove denominazioni dei cinque ministeri che cambiano nome, compreso il Ministero dello Sviluppo Economico, che diventa “Ministero delle Imprese e del Made in Italy”.
[72] www.mise.gov.it.
[73] La IBM (International Business Machines Corporation) è tra le maggiori imprese del mondo e un marchio leader dell’Information Technology.
[74] Documento di sintesi “La Blockchain per la tracciabilità del Made in Italy: Origine, Qualità, Sostenibilità”, www.mise.gov.it.
[75] Si veda G. Spoto, Gli utilizzi della blockchain e dell’Internet of Things nel settore degli alimenti, in Riv. dir. alim., 1 (2019) 33; G. Teubner, Soggetti giuridici digitali?, Napoli 2019, 20 ss.; cfr. F. Prete, La tracciabilità, in P. Borghi, I. Canfora, A. Di Lauro, L. Russo (curr.), cit., Milano 2021, 252.
[76] Cfr. M. T. Giordano, La blockchain ed il trattamento dei dati personali, in R. Battaglini, M. T. Giordano (curr.), cit., Milano (2019), 99 ss.
[77] L’art. 4, par. 1, n. 1 del GDPR definisce il dato personale come «qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile («interessato»); si considera identificabile la persona fisica che può essere identificata, direttamente o indirettamente, con particolare riferimento a un identificativo come il nome, un numero di identificazione, dati relativi all’ubicazione, un identificativo online o a uno o più elementi caratteristici della sua identità fisica, fisiologica, genetica, psichica, economica, culturale o sociale».
[78] L’art. 4, par. 1, n. 5 del GDPR definisce la pseudonimizzazione come «il trattamento dei dati personali in modo tale che i dati personali non possano più essere attribuiti a un interessato specifico senza l’utilizzo di informazioni aggiuntive, a condizione che tali informazioni aggiuntive siano conservate separatamente e soggette a misure tecniche e organizzative intese a garantire che tali dati personali non siano attribuiti a una persona fisica identificata o identificabile».
[79] Cfr. M. T. Giordano, La blockchain ed il trattamento dei dati personali, in R. Battaglini, M. T. Giordano (curr.), cit., Milano 2019, 109; C. Campagna, Intelligenza artificiale e blockchain nel settore agroalimentare, in F. Romeo (cur.), cit., Torino 2021, 165; Contra F. Rampone, I dati personali in ambiente blockchain tra anonimato e pseudonimato, in Ciberspazio e dir., 3 (2018) 459 ss.
[80] Ai sensi dell’art. 17 del GDPR (Diritto alla cancellazione («diritto all’oblio»)), infatti, «l’interessato ha il diritto di ottenere dal titolare del trattamento la cancellazione dei dati personali che lo riguardano senza ingiustificato ritardo e il titolare del trattamento ha l’obbligo di cancellare senza ingiustificato ritardo i dati personali» se sussistono i motivi indicati dalla disposizione in esame. All’uopo, si sono sviluppati metodi che consentano la cancellazione dei dati, ad esempio il “pruning”, una tecnica che permette di ridurre i dati conservati attraverso la cancellazione dei blocchi più vecchi. Cfr. cfr. G. M. Riccio, A. Peduto, F. Iraci Gambazza, L. Briguglio, E. Sartini, C. Occhipinti, I. Gutiérrez, D. Natale, in Medialaws–Rivista di diritto dei media, 2 (2020), 194 ss.
Iura & Legal Systems – ISSN 2385-2445 X.2023/2, B (2): 11-34