CORTE COSTITUZIONALE, 17 giugno 2022, N.152

27 Luglio 2022 Novità Giurisprudenziali

Organismi di controllo e certificazione per l’agroalimentare e l’ambiente e requisiti di idoneità morale, di indipendenza e di imparzialità degli addetti all’attività di controllo e certificazione

La norma contenuta nell’All. 2, punto C, n. 3), lett. a), del d.lg. 23 febbraio 2018, n. 20 – nella parte in cui prevede che, in funzione di assicurare il requisito di idoneità morale, di indipendenza, di imparzialità e di assenza di conflitto di interesse di cui all’art. 4, comma 6, lett. a), dello stesso d.lg., gli addetti all’attività di controllo e certificazione, presso gli organismi di controllo e certificazione per l’agroalimentare e l’ambiente, non devono ‘essere interessati da procedimenti penali in corso per delitti non colposi per i quali la legge commina la pena di reclusione non inferiore nel minimo a due anni o nel massimo a cinque anni, ovvero per i delitti di cui agli articoli 513, 515, 516, 517, 517-bis640 e 640-bis del codice penale‘ – deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima per contrasto con l’art. 3 Cost. limitatamente alle parole ‘o essere interessati da procedimenti penali in corso’.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giuliano AMATO; Giudici : Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’Allegato 2, punto C, numero 3), lettera a), del decreto legislativo 23 febbraio 2018, n. 20, recante «Disposizioni di armonizzazione e razionalizzazione della normativa sui controlli in materia di produzione agricola e agroalimentare biologica, predisposto ai sensi dell’articolo 5, comma 2, lett. g), della legge 28 luglio 2016, n. 154, e ai sensi dell’articolo 2 della legge 12 agosto 2016, n. 170», promosso dal Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, nel procedimento vertente tra G. B. e S. e S. srl, con ordinanza del 10 novembre 2020, iscritta al n. 88 del registro ordinanze 2021 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 25, prima serie speciale, dell’anno 2021.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 

udito nella camera di consiglio del 27 aprile 2022 il Giudice relatore Giovanni Amoroso; 

deliberato nella camera di consiglio del 27 aprile 2022. 

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 10 novembre 2020 (reg. ord. n. 88 del 2021), il Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 27, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 6, paragrafo 2, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, questioni di legittimità costituzionale dell’Allegato 2, punto C, numero 3), lettera a), del decreto legislativo 23 febbraio 2018, n. 20, recante «Disposizioni di armonizzazione e razionalizzazione della normativa sui controlli in materia di produzione agricola e agroalimentare biologica, predisposto ai sensi dell’articolo 5, comma 2, lett. g), della legge 28 luglio 2016, n. 154, e ai sensi dell’articolo 2 della legge 12 agosto 2016, n. 170», nella parte in cui prevede che il requisito di idoneità morale, di indipendenza, di imparzialità e assenza di conflitto di interesse di cui all’art. 4, comma 6, lettera a), dello stesso decreto legislativo, è assicurato dall’organismo di controllo e certificazione per l’agroalimentare e l’ambiente, avvalendosi di collaboratori o dipendenti addetti all’attività di controllo e certificazione che «non devono […] essere interessati da procedimenti penali in corso per delitti non colposi per i quali la legge commina la pena di reclusione non inferiore nel minimo a due anni o nel massimo a cinque anni, ovvero per i delitti di cui agli articoli 513, 515, 516, 517, 517-bis, 640 e 640-bis del codice penale […]».

L’Allegato 2 in parola è richiamato, come detto, dall’art. 4, comma 6, lettera a), del d.lgs. n. 20 del 2018, contenente, in conformità alla normativa dell’Unione europea – ed in particolare del regolamento (CE) n. 834/2007 del Consiglio, del 28 giugno 2007, relativo alla produzione biologica e all’etichettatura dei prodotti biologici e che abroga il regolamento (CEE) n. 2092/91 – i principi e le disposizioni per la razionalizzazione, la regolazione e l’armonizzazione del sistema dei controlli e di certificazione delle attività di produzione, trasformazione, commercializzazione, importazione di prodotti ottenuti secondo il metodo di agricoltura biologica e la relativa disciplina sanzionatoria.

Il regolamento europeo incaricava gli Stati membri di designare le autorità responsabili dei controlli in materia di agricoltura biologica, stabilendo che l’autorità designata potesse delegare i propri compiti ad uno o più organismi di controllo, debitamente autorizzati e posti sotto la sua vigilanza (art. 27, comma 4).

Il d.lgs. n. 20 del 2018, previa individuazione dell’autorità competente nel Ministero per le politiche agricole e forestali (art. 4, comma 1), ha previsto che i compiti di controllo e certificazione possano essere da esso delegati ad uno o più organismi, i quali devono rivolgere al Ministero apposita istanza di autorizzazione (art. 4, comma 2). L’ottenimento e il mantenimento dell’autorizzazione sono subordinati, tra l’altro, al possesso di specifici requisiti di «idoneità morale, imparzialità, ed assenza di conflitto di interesse dei propri rappresentanti, degli amministratori, del personale addetto all’attività di controllo e certificazione, secondo quanto specificato dall’allegato 2» (art. 4, comma 6, lettera a).

Il richiamato Allegato 2 precisa che, al fine di assicurare i predetti requisiti, nonché quello di imparzialità, i rappresentanti, gli amministratori degli organismi di controllo e certificazione e il personale addetto allo svolgimento di tale attività «non devono aver riportato condanne definitive (o decreto penale di condanna divenuto irrevocabile o sentenza di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’art. 444 del codice di procedura penale) o essere interessati da procedimenti penali in corso per delitti non colposi per i quali la legge commina la pena di reclusione non inferiore nel minimo a due anni o nel massimo a cinque anni, ovvero per i delitti di cui agli articoli 513, 515, 516, 517, 517-bis, 640 e 640-bis del codice penale, ovvero condanne che importano l’interdizione dai pubblici uffici per durata superiore a tre anni». 

Secondo il rimettente, tale ultima disposizione, nella parte in cui esige, in funzione dell’ottenimento e del mantenimento dell’autorizzazione da parte dell’organismo di controllo e certificazione, che i collaboratori e i dipendenti, di cui esso si avvale per lo svolgimento di tale attività, non siano «interessati da procedimenti penali in corso per delitti non colposi per i quali la legge commina la pena di reclusione non inferiore nel minimo a due anni o nel massimo a cinque anni, ovvero per i delitti di cui agli articoli 513, 515, 516, 517, 517-bis, 640 e 640-bis del codice penale», lederebbe, per un verso, il principio di ragionevolezza (ponendosi in contrasto con l’art. 3 Cost.) e, per altro verso, la presunzione di innocenza (ponendosi in contrasto con gli artt. 27, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 2, CEDU e all’art. 48 CDFUE).

L’ordinanza di rimessione è stata emessa nell’ambito di un giudizio introdotto da un lavoratore parasubordinato, svolgente mansioni di tecnico ispettore addetto al controllo e alla certificazione dei prodotti da agricoltura biologica, il quale, dopo avere ricevuto, dalla competente procura della Repubblica, avviso di conclusione delle indagini preliminari per i reati di cui agli artt. 81, 640-bis, 48 e 479, in relazione all’art. 476, del codice penale, si era visto risolvere, da parte dell’organismo di controllo e certificazione nel cui interesse aveva svolto la predetta attività, il contratto di collaborazione coordinata e continuativa precedentemente stipulato.

Il giudice a quo riferisce che il ricorrente, G. B. – premesso che aveva ricevuto dalla società S. e S. srl, organismo di controllo e certificazione per l’agroalimentare e l’ambiente, una nota di interruzione del rapporto di collaborazione coordinata e continuativa precedentemente instaurato, fondata sul sopravvenuto venir meno di uno dei presupposti necessari per la conservazione dell’autorizzazione ministeriale allo svolgimento delle predette attività – aveva domandato l’accertamento dell’illegittimità di tale atto di recesso, nonché la condanna della società recedente al risarcimento del danno, adducendo l’illegittimità costituzionale delle norme di legge poste a fondamento dell’atto datoriale.

Il rimettente espone che analoga eccezione era stata sollevata dalla società convenuta, costituitasi in giudizio, la quale, nel rimarcare la legittimità del proprio operato, ne aveva evidenziato il carattere necessitato, avuto riguardo all’esigenza di ottemperare a norme di legge a suo avviso costituzionalmente illegittime.

1.1.– Il giudice a quo, nell’aderire ai sospetti di illegittimità costituzionale delle disposizioni contenute nell’Allegato 2, punto C, numero 3), lettera a), al d.lgs. n. 20 del 2018, in ordine alle modalità di assicurazione del requisito di idoneità morale dell’organismo di controllo e certificazione (con riferimento alla necessità che gli addetti a tale attività non siano interessati da procedimenti penali relativi a specifiche tipologie di reati), ritiene, anzitutto, che le questioni siano rilevanti nel giudizio principale.

Evidenzia, al riguardo, che, essendo stato basato (l’atto recessivo) unicamente sulla necessità di ottemperare alle disposizioni tacciate di illegittimità costituzionale, ove le questioni fossero fondate, il recesso operato dalla società convenuta dovrebbe reputarsi illegittimo (e le domande proposte dal ricorrente dovrebbero essere accolte), atteso che la disciplina del contratto di collaborazione coordinata e continuativa non attribuiva al committente, nel caso di specie, la facoltà di recedere ad nutum, e che, pertanto, l’esercizio di tale potere era subordinato alla sussistenza di una giusta causa, nella specie mancante.

Al contrario, ove le questioni di legittimità costituzionale fossero ritenute non fondate, si confermerebbe la validità della base normativa giustificativa dell’atto datoriale volto a porre fine al rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, cosicché le domande formulate dal ricorrente dovrebbero essere rigettate.

1.2.– Le questioni, poi, sarebbero altresì non manifestamente infondate.

Dall’esame sistematico delle disposizioni del codice di procedura penale in materia di «procedimento» e «processo» (ed in particolare dall’art. 60 cod. proc. pen.) emergerebbe con evidenza che la nozione di «procedimento penale» ricomprende necessariamente l’intera sequenza di atti posti in essere dall’iscrizione della notizia di reato (art. 335 cod. proc. pen.) al passaggio in giudicato della sentenza di non luogo a procedere, di proscioglimento o di condanna, mentre la nozione di processo, più ristretta, ricomprenderebbe la sequenza di atti compiuti a seguito della richiesta di rinvio a giudizio (ossia le fasi successive all’esercizio dell’azione penale), allorché la persona sottoposta alle indagini (indagato) assuma il diverso status di imputato.

Ciò posto, l’espressione «essere interessati da procedimenti penali», contenuta nella norma sospettata di illegittimità costituzionale, concernerebbe il «procedimento penale» propriamente detto, cioè l’intera fase ricompresa tra l’iscrizione nel registro degli indagati e il provvedimento penale definitivo.

Dunque, ai sensi dell’Allegato 2, punto C, numero 3), lettera a), al d.lgs. n. 20 del 2018, l’impossibilità di svolgere le mansioni di addetto al controllo e alla certificazione in materia di agricoltura biologica si porrebbe, in funzione della necessità di assicurare il prescritto requisito di idoneità morale, non soltanto per le persone condannate in sede penale o per quelle rispetto alle quali è stato chiesto dal pubblico ministero il rinvio a giudizio, ma anche per le persone semplicemente indagate, rispetto alle quali, in seguito all’acquisizione di una notizia di reato, il pubblico ministero, prima ancora che sia stato acquisito alcun elemento atto a confermare o smentire la notizia medesima, abbia doverosamente disposto l’avvio delle indagini preliminari mediante iscrizione nell’apposito registro.

Il carattere necessitato di tale risultato interpretativo (rispetto al quale non vi sarebbe la possibilità di un’interpretazione alternativa, costituzionalmente orientata) proietterebbe la disposizione censurata in una situazione di illegittimità costituzionale.

In primo luogo, la norma violerebbe l’art. 3 Cost., ponendosi in contrasto con il principio di ragionevolezza, giacché, equiparando la posizione di chi è sottoposto ad indagini preliminari a quella di coloro che abbiano visto accertata la loro responsabilità penale, sia pure in via non definitiva, configurerebbe una conseguenza eccessivamente grave e sproporzionata rispetto agli obiettivi avuti di mira dal legislatore europeo con l’introduzione del requisito dell’idoneità morale previsto dal regolamento n. 834 del 2007.

Nel bilanciamento tra l’interesse dello Stato a che sia assicurato il predetto requisito e l’interesse del lavoratore ad essere considerato innocente sino al provvedimento irrevocabile di condanna, sarebbe ingiustificatamente penalizzato questo secondo intresse.

Inoltre, la disposizione sospettata di illegittimità costituzionale introdurrebbe un elemento di forte incoerenza nel sistema normativo, in quanto si porrebbe in contrasto con l’univoca linea tendenziale dell’ordinamento volta ad attribuire rilevanza esclusivamente alle sentenze di condanna, sia pure non definitive. Tale linea emergerebbe, in particolare, in funzione della individuazione di situazioni ostative all’assunzione di incarichi pubblici o in enti privati a controllo pubblico (decreto legislativo 8 aprile 2013, n. 39, recante «Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell’articolo 1, commi 49 e 50, della legge 6 novembre 2012, n. 190»), alla possibilità di ricoprire cariche elettive e di governo (artt. 1, 6, 7 e 10 del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235, recante «Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190»), al diritto di partecipare a procedure di appalto o concessione (art. 80 del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, recante «Codice dei contratti pubblici») e allo svolgimento di funzioni amministrative nell’ambito degli enti locali (già art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55, recante «Nuove disposizioni per la prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale», poi rifluito nelle disposizioni di cui al decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, recante «Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali»).

In secondo luogo, la disposizione contenuta nell’Allegato 2, punto C, numero 3), lettera a), al d.lgs. n. 20 del 2018, violerebbe gli artt. 27, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 2, CEDU e all’art. 48 CDFUE, ponendosi in contrasto con il principio della presunzione di innocenza.

2.– Nel giudizio incidentale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato.

La difesa statale ha, anzitutto, eccepito l’inammissibilità delle questioni per difetto di motivazione sulla rilevanza e sulla non manifesta infondatezza, censurando, per un verso, la mancata indagine, da parte del rimettente, in ordine alla possibilità dell’adozione di una misura conservativa del rapporto di lavoro da parte dell’ente committente, ed evidenziando, per altro verso, che il dubbio di ragionevolezza avrebbe dovuto essere enunciato comparando, non già la situazione dell’indagato a quella del condannato, ma la situazione di quest’ultimo all’indagato per delitti non colposi per i quali la legge commina la pena della reclusione non inferiore nel minimo a due anni o nel massimo a cinque anni, ovvero per i delitti di cui agli artt. 513, 515, 516, 517, 517-bis, 640 e 640-bis cod. pen.

Con specifico riguardo alla censura di violazione della presunzione di innocenza, la difesa statale ne ha eccepito l’inammissibilità, in quanto il giudice a quo, in modo meramente assertivo, si sarebbe limitato ad indicare i parametri evocati e le norme interposte, senza illustrare le ragioni del sospetto di illegittimità costituzionale.

Nel merito, l’interveniente ha chiesto dichiararsi non fondate le questioni di legittimità costituzionale in esame. 

Considerato in diritto

1.– Con ordinanza del 10 novembre 2020 (reg. ord. n. 88 del 2021), il Tribunale ordinario di Roma, in funzione di giudice del lavoro, ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’Allegato 2, punto C, numero 3), lettera a), del decreto legislativo 23 febbraio 2018, n. 20, recante «Disposizioni di armonizzazione e razionalizzazione della normativa sui controlli in materia di produzione agricola e agroalimentare biologica, predisposto ai sensi dell’articolo 5, comma 2, lett. g), della legge 28 luglio 2016, n. 154, e ai sensi dell’articolo 2 della legge 12 agosto 2016, n. 170», nella parte in cui prevede che il requisito di idoneità morale, di indipendenza, di imparzialità e assenza di conflitto di interesse di cui all’art. 4, comma 6, lettera a), dello stesso decreto legislativo, è assicurato dall’organismo di controllo e certificazione per l’agroalimentare e l’ambiente, avvalendosi di collaboratori o dipendenti addetti all’attività di controllo e certificazione che, tra l’altro, non debbono «essere interessati da procedimenti penali in corso per delitti non colposi per i quali la legge commina la pena di reclusione non inferiore nel minimo a due anni o nel massimo a cinque anni, ovvero per i delitti di cui agli articoli 513, 515, 516, 517, 517-bis, 640 e 640-bis del codice penale».

La disposizione censurata violerebbe, anzitutto, l’art. 3 della Costituzione, per lesione del principio di ragionevolezza, perché, equiparando la posizione di chi è sottoposto ad indagini preliminari a quella di coloro di cui è stata accertata la responsabilità penale, sia pure in via non definitiva, per un verso configurerebbe una conseguenza eccessivamente grave e sproporzionata rispetto agli obiettivi perseguiti con l’introduzione del requisito dell’idoneità morale del personale addetto all’attività di controllo e certificazione dei prodotti di agricoltura biologica, atteso che nel bilanciamento tra l’interesse dello Stato a che sia assicurato il predetto requisito e l’interesse del lavoratore ad essere considerato innocente sino al provvedimento irrevocabile di condanna, sarebbe ingiustificatamente penalizzato questo secondo interesse; per altro verso, introdurrebbe un elemento di forte incoerenza nel sistema normativo, ponendosi in contrasto con la linea di tendenza ordinamentale volta ad attribuire rilevanza – in funzione della individuazione di situazioni ostative all’assunzione di incarichi pubblici o in enti privati a controllo pubblico, alla possibilità di ricoprire cariche elettive e di governo, e al diritto di partecipare a procedure di appalto o concessione e allo svolgimento di funzioni amministrative nell’ambito degli enti locali – esclusivamente alle sentenze di condanna, sia pure non definitive.

In secondo luogo, la norma sospettata di illegittimità costituzionale violerebbe gli artt. 27, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 2, della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, e all’art. 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, ponendosi in contrasto con il principio della presunzione di innocenza.

2.– Preliminarmente, va osservato che sussiste la rilevanza delle questioni nel giudizio a quo.

Secondo la difesa statale – che ha censurato che sia stata omessa l’indagine, nell’ordinanza di rimessione, in ordine alla possibilità dell’adozione di una misura conservativa del rapporto di lavoro da parte dell’ente committente – la mancanza del requisito di idoneità morale, di indipendenza, di imparzialità e assenza di conflitto di interesse nel personale addetto all’attività di controllo e certificazione non pregiudicherebbe la prosecuzione di un valido rapporto di lavoro tra questo personale e l’organismo di controllo e certificazione, ma solo la possibilità, per quest’ultimo, di ottenere e mantenere l’autorizzazione a svolgere i predetti compiti. Per evitare il diniego dell’autorizzazione (o la revoca di quella già ottenuta), l’organismo non sarebbe costretto a risolvere il contratto di lavoro, essendo sufficiente, appunto, l’adozione di una misura conservativa, mediante l’emissione di un provvedimento cautelare di sospensione sino alla conclusione del procedimento penale. La decisione sulle domande formulate nel giudizio a quo (aventi ad oggetto l’accertamento dell’illegittimità del recesso e la condanna del datore di lavoro al risarcimento del danno) non sarebbe, dunque, subordinata al giudizio di legittimità costituzionale sulla norma indubbiata.

In contrario può, tuttavia, osservarsi che, nella fattispecie in esame, il rapporto intercorrente tra le parti del giudizio principale non ha la natura di lavoro subordinato, ma trova la sua fonte in un contratto di collaborazione coordinata e continuativa, avente ad oggetto, secondo quanto riferito dal giudice a quo, lo svolgimento delle funzioni di controllo e certificazione dei prodotti biologici, vale a dire proprio (e specificamente) le funzioni che presuppongono, nel personale addetto, i requisiti di idoneità morale previsti dalla norma tacciata di illegittimità costituzionale.

Ne deriva che, da un lato, non trovano applicazione gli istituti tipici che caratterizzano le prerogative del datore di lavoro nella fase esecutiva del rapporto di lavoro subordinato (come lo ius variandi e la sospensione cautelare del dipendente); dall’altro lato, il venir meno, nella persona del collaboratore, dei requisiti di idoneità morale cui la norma censurata subordina la possibilità di svolgimento dell’attività dedotta nel contratto di collaborazione coordinata e continuativa, è circostanza idonea a determinare l’impossibilità sopravvenuta della prestazione, sub specie di impossibilità giuridica, cui consegue la risoluzione del rapporto contrattuale (art. 1463 del codice civile).

Poiché il rimettente ha evidenziato che il recesso datoriale si fonda unicamente sulla sopravvenuta mancanza dei predetti requisiti di idoneità morale (quale giusta causa di risoluzione in assenza della previsione della facoltà di recesso ad nutum), le sollevate questioni di legittimità costituzionale sono rilevanti, in quanto il giudizio sulla legittimità o meno del recesso dipende da quello sulla legittimità costituzionale della norma posta a fondamento dello stesso.

3.– Prima di procedere ad esaminare il merito delle questioni, giova premettere una sintetica ricostruzione del quadro normativo di riferimento, quanto alla disciplina del sistema dei controlli e della certificazione dei prodotti da agricoltura biologica, con particolare riguardo ai requisiti soggettivi richiesti per lo svolgimento delle funzioni di controllo e certificazione, nell’ambito del sistema generale di regole ed istituti che, nei diversi settori dell’ordinamento, riconnettono all’accertamento di determinati reati la produzione di effetti giuridici extrapenali, incidenti in modo limitativo o addirittura privativo sui diritti soggettivi delle persone interessate dall’accertamento medesimo.

A livello eurounitario, la disciplina di massima relativa al sistema dei controlli e di certificazione delle attività di produzione, trasformazione, commercializzazione, importazione di prodotti ottenuti secondo il metodo agricolo e agroalimentare biologico, è contenuta nel regolamento (CE) n. 834/2007 del Consiglio, del 28 giugno 2007, relativo alla produzione biologica e all’etichettatura dei prodotti biologici e che abroga il regolamento (CEE) n. 2092/91, il quale pone, come principio di carattere generale, quello per cui il sistema di controllo deve permettere la tracciabilità di ogni prodotto in tutte le fasi della produzione, preparazione e distribuzione, al fine di garantire che i beni di consumo derivanti da agricoltura biologica siano stati prodotti nel rispetto dei requisiti stabiliti nel regolamento medesimo. 

A tal uopo, il regolamento suddetto – applicabile ratione temporis e successivamente sostituito dal regolamento 2018/848/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 30 maggio 2018, relativo alla produzione biologica e all’etichettatura dei prodotti biologici – stabilisce, in particolare, che gli Stati membri istituiscono un sistema di controllo e designano una o più autorità competenti (art. 27, comma 1).

L’autorità designata può conferire le sue competenze di controllo ad una o più autorità di controllo, le quali devono offrire adeguate garanzie di oggettività e imparzialità e disporre di personale qualificato nonché delle risorse necessarie per svolgere le loro funzioni; l’autorità designata può, inoltre, delegare i propri compiti ad uno o più organismi di controllo, nel qual caso gli Stati membri designano le autorità responsabili dell’autorizzazione e della vigilanza su detti organismi (art. 27, comma 4, lettere a e b).

Sia le autorità di controllo che gli organismi di controllo consentono alle autorità competenti di accedere ai loro uffici ed impianti e forniscono qualsiasi informazione e assistenza ritenuta necessaria per l’adempimento degli obblighi ad essi incombenti (art. 27, comma 11). 

Gli organismi di controllo, debitamente accreditati, devono possedere l’esperienza, le attrezzature e le infrastrutture necessarie per l’espletamento dei compiti loro delegati; devono disporre di personale qualificato ed esperto; devono essere imparziali e liberi da qualsiasi conflitto di interessi (art. 27, comma 5).

In caso di carenze nell’espletamento dei compiti, l’autorità competente può ritirare la delega. Questa è ritirata senza indugio se l’organismo di controllo non adotta correttivi appropriati e tempestivi (art. 27, comma 8).

Il d.lgs. n. 20 del 2018 prevede che, al fine di svolgere i compiti di organismo di controllo, gli enti accreditati ai sensi della normativa europea e nazionale vigente presentano istanza di autorizzazione al Ministero per le politiche agricole e forestali (art. 4, comma 1). 

Ai fini dell’autorizzazione, il Ministero accerta la sussistenza di specifici requisiti, che devono essere assicurati per l’intera durata dell’autorizzazione medesima (art. 4, comma 6).

Tra questi requisiti, oltre quelli di carattere oggettivo, concernenti l’adeguatezza delle strutture e delle risorse strumentali e umane rispetto ai compiti delegati (art. 4, comma 6, lettere b e c), vi sono quelli, di carattere soggettivo, concernenti l’idoneità morale, l’imparzialità e l’assenza di conflitto di interesse dei propri rappresentanti, degli amministratori e del personale addetto all’attività di controllo e certificazione, i quali sono specificati nell’Allegato 2 al decreto legislativo (art. 4, comma 6, lettera a).

Il citato Allegato 2, espressamente dedicato ai «Requisiti dell’organismo di controllo», prevede, al punto C, le modalità attraverso le quali viene assicurato il requisito di idoneità morale, di indipendenza, di imparzialità e assenza di conflitto di interessi.

A tal uopo, si dispone che siano fissati e resi pubblici criteri per stabilire congrue tariffe da applicare agli operatori e si vieta all’organismo di controllo di svolgere attività di consulenza, nel settore dell’agricoltura biologica, a favore degli operatori assoggettati (Allegato 2, punto C, numeri 1 e 2).

Si prevede, inoltre, che i rappresentanti, gli amministratori degli organismi di controllo e certificazione e il personale addetto allo svolgimento di tale attività «non devono aver riportato condanne definitive (o decreto penale di condanna divenuto irrevocabile o sentenza di applicazione della pena su richiesta ai sensi dell’articolo 444 del codice di procedura penale) o essere interessati da procedimenti penali in corso per delitti non colposi per i quali la legge commina la pena di reclusione non inferiore nel minimo a due anni o nel massimo a cinque anni, ovvero per i delitti di cui agli articoli 513 515, 516, 517, 517-bis, 640 e 640-bis del codice penale, ovvero condanne che importano l’interdizione dai pubblici uffici per durata superiore a tre anni» (Allegato 2, punto C, numero 3, lettera a).

Nel prevedere, direttamente e in negativo, una modalità di assicurazione del requisito di idoneità morale che l’organismo di controllo deve possedere per ottenere la prescritta autorizzazione, la norma in parola stabilisce, indirettamente e in positivo, una misura extrapenale, limitativa di un diritto soggettivo della persona, quale effetto dell’accertamento della responsabilità penale (o della sottoposizione ad un procedimento penale) per determinati reati: chi abbia riportato una sentenza definitiva di condanna o di patteggiamento o un decreto penale irrevocabile di condanna o, semplicemente, sia interessato da un procedimento penale in corso per uno dei delitti specificamente previsti dalla norma o comunque per delitti non colposi per i quali è prevista la pena della reclusione non inferiore nel minimo a due anni o nel massimo a cinque anni, non può assumere l’ufficio di amministratore o rappresentante di un organismo di controllo e certificazione né può obbligarsi a svolgere, in qualsiasi forma (subordinata, parasubordinata o autonoma), l’attività di controllo e certificazione dei prodotti biologici nell’interesse dell’organismo medesimo; ad analoga preclusione va incontro chi abbia riportato condanne che importano l’interdizione dai pubblici uffici per una durata superiore a tre anni.

Infine va considerato che la recente delega al Governo per la revisione, l’armonizzazione e la razionalizzazione della normativa sui controlli per la produzione agricola e agroalimentare biologica (art. 19 della legge 9 marzo 2022, n. 23, recante «Disposizioni per la tutela, lo sviluppo e la competitività della produzione agricola, agroalimentare e dell’acquacoltura con metodo biologico»), pur prevedendo la revisione, l’aggiornamento e il rafforzamento del sistema dei controlli in materia di produzione agricola e agroalimentare biologica, di cui al richiamato d.lgs. n. 20 del 2018 – mediante principi e criteri direttivi, tra cui figura quello relativo alla «revisione, aggiornamento e rafforzamento del sistema dei controlli in materia di produzione agricola e agroalimentare biologica, di cui al decreto legislativo 23 febbraio 2018, n. 20» (art. 19, comma 1, lettera a) –, non incide sui termini delle sollevate questioni di legittimità costituzionale. 

4.– Tenendo conto del contenuto della norma sospettata di illegittimità costituzionale, deve considerarsi che anche altre disposizioni, in diversi settori dell’ordinamento, svolgono la medesima funzione di comprimere la sfera giuridica dei soggetti a carico dei quali sia stato svolto un accertamento penale, prevedendo limitazioni all’esercizio di determinati diritti soggettivi.

Con riguardo al diritto di libertà di iniziativa economica privata e di libertà negoziale (art. 41 Cost.), misure siffatte sono stabilite, ad esempio, nel decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Codice dei contratti pubblici), il quale prevede che la condanna con sentenza definitiva o decreto penale di condanna divenuto irrevocabile o sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti, per specifici delitti, costituisce motivo di esclusione dell’operatore economico dalla partecipazione a una procedura d’appalto o di concessione (art. 80, comma 1). 

Con riguardo al diritto di elettorato passivo e di assunzione di incarichi di governo, il decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell’articolo 1, comma 63, della legge 6 novembre 2012, n. 190) – cosiddetta “legge Severino” – prevede che non possono essere candidati e non possono comunque ricoprire la carica di deputato e senatore né cariche elettive regionali o presso gli enti locali, né incarichi di governo coloro che hanno riportato condanne definitive per specifici delitti non colposi (artt. 1, 6, comma 1, 7, comma 1, e 10, comma 1). Il medesimo decreto legislativo prevede, inoltre, la sospensione dalle cariche di amministratore degli enti regionali e locali (presidente della Provincia, sindaco, assessore e consigliere provinciale e comunale, eccetera) in capo a coloro i quali abbiano riportato una condanna non definitiva per specifici delitti, in particolare contro la pubblica amministrazione (art. 11, comma 1).

In ordine all’assunzione di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, il decreto legislativo 8 aprile 2013, n. 39 (Disposizioni in materia di inconferibilità e incompatibilità di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico, a norma dell’articolo 1, commi 49 e 50, della legge 6 novembre 2012, n. 190) prevede che a coloro che sono stati condannati, anche con sentenza non passata in giudicato, per reati contro la PA, non possono essere conferiti incarichi amministrativi di vertice o di amministratore negli enti pubblici statali, regionali e locali, né incarichi dirigenziali nelle pubbliche amministrazioni o di amministratore in enti di diritto privato in controllo pubblico, ivi compresi quelli di direttore generale, direttore sanitario e direttore amministrativo nelle aziende sanitarie locali del servizio sanitario nazionale (art. 3). L’impossibilità di assumere incarichi dirigenziali nelle pubbliche amministrazioni è una misura limitativa extrapenale dipendente dall’accertamento del reato che afferisce al medesimo diritto soggettivo limitato dalla misura prevista dalla norma oggetto delle questioni di legittimità costituzionale in esame, poiché incide sull’attitudine a essere parte di un rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato, sia pure di natura pubblicistica.

Misure extrapenali limitative di situazioni giuridiche soggettive in connessione con l’accertamento della responsabilità penale, sono previste, ancora, nel decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali). Nella formulazione precedente alle modifiche apportate dall’art. 7, comma 1, lettera a), del decreto-legge 29 marzo 2004, n. 80 (Disposizioni urgenti in materia di enti locali), convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 2004, n. 140, l’art. 58 del citato decreto legislativo stabiliva che coloro che avessero riportato condanne definitive per specifici delitti contro la PA, nonché per il delitto di associazione di tipo mafioso, per determinati delitti concernenti sostanze stupefacenti o psicotrope e per altri gravi reati, non potessero essere candidati alle elezioni regionali, provinciali, comunali e circoscrizionali e non potessero, tra l’altro, ricoprire le cariche di presidente della Provincia, sindaco, assessore e consigliere provinciale e comunale, nonché quelle di presidente e componente del consiglio circoscrizionale, del consiglio di amministrazione dei consorzi, dei consigli e delle giunte delle unioni di Comuni e degli organi delle Comunità montane.

Questa disposizione, abrogata dall’art. 17 del d.lgs. n. 235 del 2012, è oggi confluita nell’art. 10, comma 1, del Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi, emanato con il medesimo decreto legislativo.

5.– Può, quindi, dirsi che è ricorrente l’evenienza che l’ordinamento riconnetta, all’accertamento di specifici delitti, identificati in base al bene giuridico tutelato dalle relative norme incriminatrici o in base all’entità della pena da queste comminata, la produzione di effetti giuridici extrapenali, con implicazioni limitative delle facoltà inerenti ai diritti soggettivi delle persone interessate dall’accertamento medesimo.

Queste misure extrapenali – al di fuori del settore delle leggi antimafia nel quale le esigenze di prevenzione trovano la loro massima espressione – scattano in genere quando l’accertamento penale ha raggiunto un certo stadio di affidabilità, corrispondente, se non al grado di certezza derivante dalla emissione di una sentenza definitiva di condanna o di applicazione della pena oppure di un decreto penale irrevocabile, quanto meno a quello derivante da una condanna non definitiva. 

La linea tendenziale dell’ordinamento è, dunque, quella di riconoscere uno specifico presupposto di applicabilità della misura extrapenale alla circostanza che l’accertamento della responsabilità penale sia stato oggetto di un primo vaglio giudiziario. Questo presupposto trova fondamento nell’esigenza di operare un ragionevole bilanciamento tra l’interesse della persona a esercitare i propri diritti soggettivi e l’interesse dello Stato ad evitare che gli autori (o, in casi limite, i gravemente indiziati) di determinati reati pongano in essere condotte idonee a ledere o porre in pericolo interessi contigui al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice violata, nonché, quando si tratti di diritti connessi all’esercizio di cariche pubbliche o di pubblici uffici, gli interessi tutelati dagli artt. 54 e 97 Cost.

6.– Da questa linea tendenziale il legislatore si è discostato notevolmente con l’emanazione della norma contenuta nell’Allegato 2, punto C, numero 3), lettera a), al d.lgs. n. 20 del 2018 (oggetto delle questioni di legittimità costituzionale in esame), giacché in questo caso la misura extrapenale limitativa di un diritto soggettivo (il diritto al lavoro) della persona sottoposta a procedimento penale consegue all’accertamento del reato, sia pure con sentenza di condanna non definitiva (purché, però, comportante l’interdizione dai pubblici uffici per una durata superiore a tre anni), soltanto quando si tratti di reati diversi da quelli specificamente contemplati dalla norma stessa. 

Allorché, invece, si tratti dei delitti previsti dagli artt. 513 (Turbata libertà dell’industria o del commercio), 515 (Frode nell’esercizio del commercio), 516 (Vendita di sostanze alimentari non genuine come genuine), 517 (Vendita di prodotti industriali con segni mendaci), eventualmente aggravati ai sensi dell’art. 517-bis, oppure dei delitti previsti dagli artt. 640 (Truffa) e 640-bis (Truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche) del codice penale o, comunque, di delitti non colposi per i quali è comminata la pena della reclusione non inferiore nel minimo a due anni o nel massimo a cinque anni, l’accertamento del reato, sia pure non definitivo, non è necessario, essendo sufficiente che il soggetto sia semplicemente “interessato” dal relativo procedimento penale in corso.

L’accento della norma, che utilizza l’espressione atecnica dell’interessamento, anziché quella, più propriamente tecnica, della sottoposizione a procedimento penale, cade sulla locuzione «procedimento».

La norma sospettata di illegittimità costituzionale prevede dunque che la misura extrapenale limitativa di un diritto soggettivo scatti, in correlazione con taluni delitti, sin dal momento in cui la persona è interessata dal (ossia sottoposta al) procedimento penale, e cioè sin dalla fase iniziale dell’accertamento penale, allorché il PM, ricevuta la notizia di reato, proceda all’iscrizione, che non postula alcun riscontro della notizia medesima, ma, in quanto atto a tutela dell’indagato, costituisce essa stessa il presupposto per procedere alla verifica della sua fondatezza.

7.– In questo contesto normativo, la questione sollevata in riferimento all’art. 3 Cost. è fondata, con assorbimento di quelle riferite agli ulteriori parametri (artt. 27, secondo comma, e 117, primo comma, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 6, paragrafo 2, CEDU) evocati dal giudice rimettente.

8.– Ponendosi in contrasto con la descritta linea tendenziale dell’ordinamento (di cui sopra, al punto 4), che radica il presupposto di operatività delle misure limitative extrapenali nella circostanza che l’accertamento della responsabilità penale del sottoposto abbia raggiunto un livello di certezza o, in casi limite, di rilevante probabilità, la norma contenuta nell’Allegato 2, punto C, numero 3), lettera a), al d.lgs. n. 20 del 2018, non solo non richiede che l’accertamento penale sia stato consacrato in una sentenza di condanna, anche non definitiva, ma prevede che esso possa mancare del tutto, rendendo applicabile la misura anche in caso di mera iscrizione nel registro delle notizie di reato (art. 335 cod. proc. pen.) a seguito di denunce che potrebbero rivelarsi del tutto infondate e persino calunniose. L’iscrizione del nome della persona alla quale il reato stesso è attribuito comporta già che la stessa possa dirsi «essere interessat[a] da procedimenti penali in corso» per uno dei reati rientranti nel catalogo contenuto nella disposizione censurata. 

Il carattere irragionevole di siffatte scelte legislative è stato già ritenuto da questa Corte in plurime occasioni.

Ad esempio è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di quelle norme (gli artt. 33, comma 7, lettera c, della legge 30 luglio 2002, n. 189, recante «Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo» e 1, comma 8, lettera c, del decreto-legge 9 settembre 2002, n. 195, recante «Disposizioni urgenti in materia di legalizzazione del lavoro irregolare di extracomunitari», convertito, con modificazioni, nella legge 9 ottobre 2002, n. 222) che facevano derivare dalla semplice presentazione di una denuncia per uno dei reati per i quali fosse previsto l’arresto obbligatorio o facoltativo in flagranza, il rigetto dell’istanza di regolarizzazione del lavoratore extracomunitario (sentenza n. 78 del 2005). A quel proposito questa Corte ha affermato che nel nostro ordinamento la denuncia è «atto che nulla prova riguardo alla colpevolezza o alla pericolosità del soggetto indicato come autore degli atti che il denunciante riferisce. Essa obbliga soltanto gli organi competenti a verificare se e quali dei fatti esposti in denuncia corrispondano alla realtà e se essi rientrino in ipotesi penalmente sanzionate, ossia ad accertare se sussistano le condizioni per l’inizio di un procedimento penale».

Considerazioni analoghe sono alla base della declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 47-ter, ultimo comma, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), nella parte in cui faceva derivare automaticamente la sospensione della detenzione domiciliare dalla presentazione di una denuncia per il reato previsto dal comma ottavo dello stesso articolo (sentenza n. 173 del 1997). Questa Corte ha osservato, al riguardo, che la norma, non lasciando spazio per un accertamento, sia pure incidentale e limitato alla verifica del fumus sulla esistenza del reato (di evasione), urtava indubbiamente contro il principio di ragionevolezza.

Parimenti questa Corte (sentenza n. 239 del 1996) ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 110 del d.P.R. 28 gennaio 1988, n. 43 (Istituzione del Servizio di riscossione dei tributi e di altre entrate dello Stato e di altri enti pubblici, ai sensi dell’articolo 1, comma 1, della legge 4 ottobre 1986, n. 657), che prevedeva la sospensione dell’ufficiale di riscossione dei tributi dall’impiego e dall’abilitazione per il solo fatto di essere sottoposto a procedimento penale per falsità nelle relazioni di notifica, in attesa della definizione del procedimento stesso. 

Analogo difetto di coerenza e ragionevolezza intrinseca presenta ora la disposizione censurata nella misura in cui collega conseguenze pregiudizievoli per la persona, privandola del requisito di idoneità morale per lo svolgimento dell’attività di controllo in materia di produzione agricola e agroalimentare biologica, in modo automatico per il solo fatto di «essere interessat[a] da procedimenti penali in corso», anche a prescindere da una formale imputazione e dal relativo vaglio del giudice; ciò che certamente è all’inizio del procedimento penale con l’iscrizione della persona nel registro delle notizie di reato (art. 335 cod. proc. pen.), ma lo è anche in seguito con la notifica dell’avviso all’indagato della conclusione delle indagini preliminari (art. 415-bis cod. proc. pen.).

9.– Vi è altresì che la questione sollevata dal giudice rimettente – ancora in riferimento all’art. 3 Cost. – chiama in causa, oltre alle istanze di coerenza dell’ordinamento giuridico, anche la ragionevolezza della scelta discrezionale del legislatore in ordine al bilanciamento degli interessi costituzionali in gioco; ragionevolezza che questa Corte ha ritenuto sussistere in ipotesi ben circoscritte.

L’adeguatezza di tale bilanciamento è stata affermata nel dichiarare non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 11, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012 (cosiddetta “legge Severino”), che prevede la sospensione di diritto dalla carica di amministratore locale di coloro i quali siano stati condannati in via non definitiva per determinati reati contro la pubblica amministrazione. Si è posto in rilievo che, di fronte a una grave situazione di illegalità nella PA, una condanna non definitiva può far sorgere l’esigenza cautelare di sospendere temporaneamente il condannato dalla carica, per evitare un «inquinamento» dell’amministrazione e per garantirne la «credibilità» presso il pubblico, cioè il rapporto di fiducia dei cittadini verso l’istituzione, talché la scelta operata dal legislatore nell’esercizio della sua discrezionalità si colloca all’interno dei confini di un ragionevole bilanciamento dei vari valori costituzionali che vengono in considerazione (sentenza n. 236 del 2015).

Inoltre, proprio nella prospettiva di un tale bilanciamento tra il menzionato interesse pubblico e gli altri interessi, anche privati, in gioco, la sospensione dalla carica di amministratore locale costituisce misura diretta a evitare che coloro che sono stati condannati anche in via non definitiva per determinati reati gravi o comunque offensivi della PA rivestano cariche amministrative, mettendo così in pericolo il buon andamento dell’amministrazione stessa e la sua onorabilità (sentenza n. 36 del 2019).

10.– Invece, nella fattispecie in esame, siffatto bilanciamento è stato operato dal legislatore in maniera non equilibrata, con sacrificio non proporzionato di chi, essendo in possesso dei requisiti di moralità per esercitare l’attività di controllo, si trova ad essere «interessat[o] da procedimenti penali in corso» per determinati reati.

Oltre all’incoerenza rispetto alla linea tendenziale dell’ordinamento di radicare il presupposto di operatività delle misure limitative extrapenali nell’avvenuto accertamento della responsabilità penale del sottoposto mediante l’emissione di una pronuncia di condanna (sia pure non definitiva), rileva, altresì, la circostanza che la capacità di una persona sottoposta a procedimento penale per determinati reati – e come tale «interessat[a] da procedimenti penali in corso» – viene oltre misura limitata per il fatto di essere inibita radicalmente fin dalla sola iscrizione nel registro degli indagati senza che sia emerso alcun fumus del reato medesimo.

La valutazione dell’interesse ad evitare che l’attività di controllo e certificazione dei prodotti da agricoltura biologica sia esercitata da soggetti che abbiano commesso reati contro l’industria, il commercio o il patrimonio (o reati comunque puniti con la pena della reclusione non inferiore nel minimo a due anni e nel massimo a cinque anni) è anticipata a tal punto da impedire lo svolgimento di un’attività lavorativa, quale conseguenza già dell’essere la persona “interessata” da un procedimento penale.

Il principio di ragionevolezza viene posto in sofferenza proprio dall’estensione, coniugata all’automatismo della misura, la quale, pur se non esige che vi sia stato un accertamento irrevocabile del reato, richiede comunque un nesso affidabile – quale riflesso del diritto dell’indagato a non essere considerato colpevole, nel procedimento penale, sino all’emanazione di un provvedimento irrevocabile di condanna – tra la possibile responsabilità penale e l’idoneità a svolgere determinate attività richiedenti particolari requisiti di moralità.

In proposito, giova ricordare che l’esigenza secondo cui «la mera iscrizione del nome della persona nel registro di cui all’articolo 335 del codice di procedura penale non determini effetti pregiudizievoli sul piano civile e amministrativo» è stata tenuta presente dal legislatore nella recente delega legislativa conferita al Governo per le modifiche al codice di procedura penale in materia di indagini preliminari e di udienza preliminare e alle disposizioni dell’ordinamento giudiziario in materia di progetti organizzativi delle procure della Repubblica, tanto da essere elevata a specifico principio e criterio direttivo per il legislatore delegato (art. 1, comma 9, lettera s, della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante «Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari»).

Invece, nella disposizione sottoposta all’odierna verifica di legittimità costituzionale, il legislatore, nel definire il requisito di idoneità morale all’attività di controllo, ha omesso di operare un bilanciamento tra l’interesse della persona a conservare tale requisito, rilevante tanto più quando condiziona il diritto al lavoro (autonomo o subordinato), e l’interesse dello Stato a garantire i requisiti di idoneità morale richiesti per lo svolgimento dell’attività di controllo e di certificazione di prodotti agroalimentari biologici. Vi è al contrario, nella fattispecie, un totale sacrificio del primo interesse – non richiedendosi neppure il mero fumus della responsabilità penale – in misura, quindi, non proporzionata alla tutela del secondo.

11.– In conclusione, la norma contenuta nell’Allegato 2, punto C, numero 3), lettera a), del d.lgs. n. 20 del 2018 – nella parte in cui prevede che, in funzione di assicurare il requisito di idoneità morale, di indipendenza, di imparzialità e di assenza di conflitto di interesse di cui all’art. 4, comma 6, lettera a), dello stesso decreto legislativo, gli addetti all’attività di controllo e certificazione, presso gli organismi di controllo e certificazione per l’agroalimentare e l’ambiente, non devono «essere interessati da procedimenti penali in corso per delitti non colposi per i quali la legge commina la pena di reclusione non inferiore nel minimo a due anni o nel massimo a cinque anni, ovvero per i delitti di cui agli articoli 513, 515, 516, 517, 517-bis, 640 e 640-bis del codice penale» – deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima per contrasto con l’art. 3 Cost., con assorbimento delle censure relative agli altri parametri evocati nell’ordinanza di rimessione.

La reductio ad legitimitatem può essere operata mediante l’espunzione della espressione «o essere interessati da procedimenti penali in corso», non essendo possibile, per la pluralità delle soluzioni ipotizzabili, anche la sostituzione con il riferimento ad una fase avanzata del procedimento stesso o del processo.

Più in particolare – come già rilevato – la disposizione in esame prevede due ordini di presupposti applicativi della misura extrapenale a carico del lavoratore addetto all’attività di controllo e certificazione: il primo ordine di presupposti (provvedimenti di condanna definitivi o “interessamento da” procedimenti penali in corso) riguarda i delitti di cui agli artt. 513, 515, 516, 517, 517-bis, 640 e 640-bis cod. pen., nonché i delitti non colposi comunque puniti con la pena della reclusione non inferiore nel minimo a due anni e nel massimo a cinque anni; il secondo presupposto (condanne comportanti l’interdizione dai pubblici uffici per durata superiore a tre anni) riguarda tutti gli altri reati. La reductio ad legitimitatem della norma postula, unicamente, l’eliminazione dell’“interessamento da procedimenti penali in corso”, quale circostanza integrante il primo presupposto, il quale viene così ad essere costituito solo dai provvedimenti di condanna irrevocabili.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

dichiara l’illegittimità costituzionale dell’Allegato 2, punto C, numero 3), lettera a), del decreto legislativo 23 febbraio 2018, n. 20, recante «Disposizioni di armonizzazione e razionalizzazione della normativa sui controlli in materia di produzione agricola e agroalimentare biologica, predisposto ai sensi dell’articolo 5, comma 2, lett. g), della legge 28 luglio 2016, n. 154, e ai sensi dell’articolo 2 della legge 12 agosto 2016, n. 170», limitatamente alle parole «o essere interessati da procedimenti penali in corso».

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 27 aprile 2022.

F.to:

Giuliano AMATO, Presidente

Giovanni AMOROSO, Redattore

Filomena PERRONE, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 17 giugno 2022.

Il Cancelliere

F.to: Filomena PERRONE