CASSAZIONE PENALE, sez. II, 12 dicembre 2024, n. 45594

CASSAZIONE PENALE, sez. II, 12 dicembre 2024, n. 45594

Nel caso di vendita di prodotti con un marchio CE (Community Europe) falso, è esclusa la configurabilità dell’illecito amministrativo previsto dall’art. 18 del D.Lgs. n. 86 del 2016 relativo all’apposizione di un contrassegno CE originario su prodotti che non presentano i requisiti previsti. In tali circostanze, la sola detenzione di un prodotto con un marchio contraffatto integra gli estremi del reato, dovendosi considerare la lesione del leale esercizio dell’attività commerciale.


REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

Composta da:

Dott. VERGA Giovanna – Presidente

Dott. AGOSTINACCHIO Luigi – Consigliere

Dott. ALMA Marco Maria – Relatore

Dott. COSCIONI Giuseppe – Consigliere

Dott. CALVISI Michele – Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

A.A., nato in Cina il giorno (Omissis);

rappresentato ed assistito dall’avv. Guido Lombardi e dall’avv. Davide Galiani – di fiducia;

avverso la sentenza in data 30/11/2023 della Corte di Appello di Roma visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

preso atto che è stata richiesta la trattazione orale del procedimento;

udita la relazione svolta dal consigliere Marco Maria Alma;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Giuseppe Sassone, che ha concluso riportandosi alla requisitoria scritta e chiedendo il rigetto del ricorso;

sentito il difensore dell’imputato (avv. Lombardi) che ha chiesto l’accoglimento del ricorso ed il conseguente annullamento della sentenza impugnata;

Rilevato che, come da ordinanza pronunciata in udienza, la notifica dell’avviso di celebrazione dell’odierna udienza al difensore della parte civile Bticino S.p a. risulta essere stata regolarmente effettuata mediante deposito in cancelleria in quanto, dato che i tentativi di invio di detto avviso dell’avviso attraverso il sistema telematico avevano dato esito negativo, è stato accertato che il nominativo del difensore non è inserito nel sistema REGINDE per motivi non dipendenti dal sistema stesso.

1. Con sentenza in data 30 novembre 2023 la Corte di Appello di Roma ha confermato la sentenza in data 13 gennaio 2023 del Tribunale della medesima con la quale era stata affermata la penale responsabilità di A.A. in ordine ai reati di commercio di prodotti con segni falsi (art. 474 cod. pen. – capo E della rubrica delle imputazioni), di tentata frode nell’esercizio del commercio (artt. 56515 cod. pen. – capo F), di vendita di prodotti industriali con segni mendaci (art. 517 cod. pen. – capo G) e di ricettazione continuata (artt. 81 cpv. 648, comma 2, cod. pen. – capo H) e, riconosciuta la continuazione tra gli stessi, concesse le circostanze attenuanti generiche, lo ha condannato a pena ritenuta di giustizia oltre al risarcimento alla costituita parte civile Bticino Spa da liquidarsi nella separata sede civile.

I fatti-reato in contestazione risultano accertati in Roma il 27 settembre 2016.

2. Ricorre per Cassazione avverso la predetta sentenza il difensore dell’imputato, deducendo:

2.1. Erronea applicazione della legge penale ai sensi dell’art. 606, co. 1, lett. b) cod. proc. pen. con riferimento agli 

artt. 648712 cod. pen., nonché mancanza e contraddittorietà della motivazione ai sensi dell’art. 606, co. 1, lett. e) cod. proc. pen. in relazione alla sussistenza degli elementi costitutivi del reato di cui all’art. 474cod. pen., vale a dire circa la prova della contraffazione dei marchi “Bticino” e “Living” e della relativa consapevolezza in capo all’imputato.

Osserva parte ricorrente che con riferimento ai prodotti “Bticino” e “Living” (3.830 beni su complessivi 24.561 sottoposti a sequestro) all’udienza del 13 gennaio 2021 sono state prodotte le regolari fatture di acquisto da parte della società “A.A. Roma di A.A.”, della quale l’odierno imputato è legale rappresentante, da parte di altra ditta del settore, la “Electrowatt Group” notoriamente produttrice dei medesimi articoli.

La situazione descritta sarebbe quindi tale da escludere in radice la consumazione del contestato reato di ricettazione o, al più da ricondurre la condotta contestata nell’alveo dell’art. 712cod. pen. il tutto con evidenti riflessi anche sulla insussistenza del delitto di cui allart. 474 cod. pen.

La Corte territoriale non avrebbe quindi dato risposta alla doglianza difensiva dedotta con l’atto di appello affrontando le problematiche giuridiche indicate in materia dalla sentenza della Sezioni Unite n. 12433/2010 non ricorrendo dati inequivoci per ritenere integrato il dolo eventuale del delitto di ricettazione e limitandosi ad argomentare su ciò che al più può ritenersi un semplice sospetto, non essendo dato comprendere quali ulteriori controlli ed accertamenti l’imputato avrebbe dovuto porre in essere prima di acquistare i prodotti de quibus.

A ciò si aggiunge, prosegue parte ricorrente, che le placche elettriche di cui si discute sono prodotti standardizzati nella forma e nell’aspetto estetico, tali da renderne assai difficile la riconoscibilità e la riconducibilità a questo od a quel produttore tanto è vero che anche l’esperto della parte civile sentito all’udienza del 13 gennaio 2021 ha parlato di “somiglianza” ai beni della Bticino asserendo che sarebbe stato necessaria l’esecuzione di qualche prova più specifica mentre il teste di P.G. Caracciolo ha affermato che ci si trova in presenza di prodotti che presentano caratteristiche similari ad alcuni prodotti con marchi depositati ma di non poter aggiungere altro perché non è un esperto.

2.2. Carenza e manifesta illogicità della motivazione ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., nonché erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 56515 cod. pen. e 517 cod.pen. ed inosservanza ed erronea applicazione di altre norme giuridiche ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen. in ordine alla violazione della normativa di cui al D.Lgs. n. 86/2016 in attuazione della Direttiva 2014/35/UE con riferimento alla presunta contraffazione del marchio CE.

Rileva, al riguardo, la difesa del ricorrente che con riguardo al marchio CE la divergenza qualitativa che integra i delitti di cui agli artt. 515 e 517 cod. pen. è data dalla contraffazione o assenza del predetto marchio che è finalizzato ad attestare la conformità del prodotto agli standard minimi di qualità prescritti dalla legislazione sovranazionale.

Tuttavia il deposito della documentazione in conformità dei criteri di cui al citato Decreto Legislativo importa che ogni onere a carico del fabbricante o dell’importatore deve ritenersi assolto, spettando alla pubblica accusa dimostrare che i prodotti non rispondono ai requisiti attestati dalla suddetta documentazione, il tutto con l’ulteriore conseguenza che il delitto contestato non può essere confuso con l’illecito amministrativo che ricorre allorquando il contrassegno CE originario (non contraffatto) venga posto direttamente dal fabbricante su prodotti che non presentano i requisiti previsti dalla normativa comunitaria ovvero sia mancante od incompleta la documentazione tecnica di corredo nonché in ogni caso di irregolarità cosiddetta formale.

Alla luce di quanto esposto, osserva parte ricorrente che nessuna delle condizioni richiamate dalla legge ricorre nel caso in esame in quanto anche la contestata apposizione del marchio CE senza il previo ottenimento delle necessarie certificazioni risulta superata dalle dichiarazioni di conformità UE depositate in relazione ai prodotti sequestrati all’udienza del 13 gennaio 2021.

Motivi della decisione

1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato.

Occorre, innanzitutto, doverosamente ricordare che “Ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando i giudici del gravame, esaminando le censure proposte dall’appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordino nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione (Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595).

Essendo incontestate le circostanze che A.A. deteneva presso il proprio esercizio commerciale di ingrosso di prodotti per la telefonia i beni di cui alle imputazioni e, in particolare, di merce esibita per la vendita priva della dicitura CE oltre che articoli sfusi recanti i marchi “Bticino” e “Living”, ha evidenziato il Tribunale che risulta dalla perizia tecnica esperita sugli oggetti in sequestro e con riferimento ai 3.830 prodotti recanti i suddetti marchi che “Il materiale sottoposto ad analisi risulta in piena contraffazione dei titoli di privativa indicati e potrebbe trarre in inganno il consumatore medio”.

Da ciò ne è seguita una logica considerazione espressa dallo stesso Tribunale – che la Corte di appello attraverso il legittimo richiamo per relationem alla sentenza di primo grado ha sostanzialmente fatto propria – relativa al fatto che “l’imputato era senza dubbio a conoscenza del carattere contraffatto della merce (e quindi della provenienza da delitto), consapevolezza resa evidente dalle modalità di vendita della merce stessa estranee ai normali canali di distribuzione (rivenditori autorizzati) di prodotti originali recanti il marchio Bticino, nonché dalla circostanza che l’imputato non fosse in grado di esibire agli agenti della Guardia di Finanza nessuna fattura come anche nessuna documentazione comprovante l’autenticità della merce rinvenuta”.

Osserva l’odierno Collegio che la logicità di quanto espresso dal Tribunale e fatto proprio dalla Corte di appello emerge proprio dal rapporto tra la documentazione tecnica acquisita dalla quale si evince che le falsità riscontrate potrebbero trarre in inganno il “consumatore medio” categoria nella quale non sembra potersi fare rientrare l’odierno imputato che, come è emerso, è un commerciante all’ingrosso di tale tipologia di prodotti e quindi soggetto certamente in grado di distinguere i prodotti autentici rispetto a quelli contraffatti.

Ulteriore elemento risolutivo è altresì stato evidenziato dallo stesso Tribunale allorquando ha evidenziato che le modalità di acquisto e di successiva messa in vendita della merce stessa risultano estranee ai normali canali di commercializzazione (attraverso rivenditori autorizzati) di beni originali recanti il marchio Bticino.

Se, infatti, è ben vero che l’imputato ha prodotto fatture di acquisto della merce da una “non meglio identificata Electrowatt Group Import -Export” non si può certo definire illogica o carente la motivazione della Corte di appello laddove ha osservato che faceva carico all’imputato verificare la legittima provenienza dei prodotti e compiere i doverosi accertamenti sull’affidabilità del fornitore, proprio perché – osserva l’odierno Collegio – la merce di quella natura viene commercializzata attraverso rivenditori autorizzati e non risulta documentato e neppure asserito dalla difesa del ricorrente che la Electrowatt appartiene a tale categoria.

Ad ulteriore corollario del quadro accusatorio si pone poi la circostanza (non documentalmente smentita dal contenuto del ricorso che in questa sede ci occupa) sottolineata dal Tribunale che l’imputato non è stato in grado di esibire documentazione comprovante l'”autenticità” della merce rinvenuta, situazione all’evidenza diversa dalla mera indicata produzione di documentazione riguardante l’asserita provenienza della merce stessa e da quella riguardante il rispetto dei requisiti di sicurezza per la commercializzazione dei prodotti nell’area UE.

In sostanza, un prodotto non proveniente dalla Bticino ma portante tale marchio o comunque avente caratteristiche idonee a trarre in inganno il “consumatore medio” circa la sua reale provenienza, è – e rimane – contraffatto anche se acquistato attraverso regolare documentazione contabile (nel caso di specie peraltro non prodotta nell’immediatezza dell’intervento di P.G. ma solo in un momento successivo) e se presenta caratteri che lo rendono conforme agli standard di conformità per la commercializzazione nell’area intracomunitaria.

Ci si trova quindi in presenza di una serie di elementi che globalmente considerati non consentono di ritenere manifestamente illogica l’affermazione dei giudici di merito che hanno ritenuto di configurare la sussistenza in capo all’imputato dell’elemento soggettivo del contestato reato di ricettazione, il che porta ad escludere la possibilità di derubricare la condotta nel reato contravvenzionale di cui all’art. 712 cod. pen.

A ciò si aggiunga che come ha già avuto modo di precisare già in tempi remoti questa Corte Suprema, “ai fini dell’accertamento dell’elemento psicologico del soggetto agente, essendo la volontà ed i moti dell’anima interni al soggetto, essi non sono dall’interprete desumibili che attraverso le loro manifestazioni, ossia attraverso gli elementi esteriorizzati e sintomatici della condotta. … Ne deriva che i singoli elementi e quindi anche quelli soggettivi attraverso cui si estrinseca l’azione, inerenti al fatto storico oggetto del giudizio, impongono una loro analisi la quale, essendo pertinente ad elementi di fatto, costituiscono appannaggio del giudizio di merito, non di quello della legittimità che può solo verificare la inesistenza di vizi logici, la correttezza e la compiutezza della motivazione, l’assenza di errori sul piano del diritto, così escludendosi in tale sede un terzo riapprezzamento del merito” (Sez. 1, sent. n. 12726 del 28/09/1988, dep. 1989, Alberto, Rv. 182105).

La corretta configurabilità del reato di ricettazione di cui al capo H della rubrica delle imputazioni comporta anche la corretta configurabilità in diritto del reato di cui all’art, art. 474 cod. pen. (capo E) la cui realizzazione in fatto – come detto – non è posta in contestazione.

2. Manifestamente infondato è, poi, anche il secondo motivo di ricorso.

Risulta dalle sentenze di merito e non è altrimenti specificamente e documentalmente smentito dal contenuto del ricorso che i beni di cui ai capi F e G della rubrica delle imputazioni erano privi del marchio CE e laddove detto marchio era effettivamente presente lo stesso risultava comunque non conforme ai requisiti richiesti al fine di confermarne l’autenticità.

È sufficiente leggere il capo E della rubrica delle imputazioni (sul punto nessuna contestazione risulta avanzata dalla difesa) per evidenziare che il marchio CE presente sul prodotti è relativo all’acronimo “China Export” che è cosa ben diversa dal marchio CE (Comunità Europea) che garantisce la conformità agli standard di qualità e sicurezza previsti per i prodotti circolanti nell’Unione Europea.

Questa Corte ha già avuto modo di stabilire che “In tema di delitti contro l’industria ed il commercio, l’esposizione per la vendita al pubblico di giocattoli con un marchio CE, acronimo di China Export, differente da quello CE (Comunità Europea) per la sola impercettibile diversa distanza tra le due lettere, integra il tentativo del reato di frode nell’esercizio del commercio di cui all’art. 515 cod. pen., in quanto la marcatura europea non solo consente la libera circolazione del prodotto nel mercato comunitario, ma, attestando la conformità del bene agli standard europei, costituisce anche una garanzia della qualità e della sicurezza di ciò che si acquista” (Sez. 3, n. 43622 del 12/06/2018, S., Rv. 273946-01).

Pacifico è, altresì, che “La vendita di prodotti con dicitura “CE” contraffatta integra il delitto di frode nell’esercizio del commercio e non il delitto di detenzione per la vendita di prodotti industriali con marchi o altri segni distintivi contraffatti o alterati, atteso che siffatta dicitura non identifica un marchio propriamente detto, inteso come elemento, o segno, o logo, idoneo a distinguere un manufatto da un altro, ma assolve alla diversa funzione di garantire al consumatore la conformità del prodotto su cui è apposta ai livelli di qualità e di sicurezza previsti dalla normativa dell’Unione europea” (Sez. 2, n. 30026 del 25/05/2021, Islam Nazrul, Rv. 281809).

I principi sopra indicati, ovviamente, risultano applicabili ai tutti i beni che presentano le predette caratteristiche e non solo ai giocattoli.

A ciò si aggiunge che “In tema di delitti contro l’industria ed il commercio, la mancata consegna da parte di colui che pone in vendita prodotti che recano il marchio CE, nel corso di un controllo, della documentazione che attesta la regolarità dell’apposizione di tale marchio, integrando l’omissione di una condotta richiesta agli operatori economici, costituisce un comportamento significativo, in assenza di elementi contrari, della irregolarità dell’apposizione, non comportando un’inammissibile inversione dell’onere della prova della sussistenza del reato di tentativo di frode nell’esercizio del commercio di cui all’art. 515cod. pen.” (In motivazione, la Corte ha precisato che la disciplina del marchio CE – che attesta che il prodotto rispetta i requisiti previsti dall’UE in materia di sicurezza, salute e tutela dell’ambiente – è prevista dal Regolamento n. 765 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 luglio 2008 e dalla decisione n. 768 del Parlamento europea e del Consiglio del 9 luglio 2008 da cui emerge, tra l’altro, che i distributori devono poter dimostrare che hanno agito con la dovuta diligenza, verificando la regolarità del suddetto marchio, e devono essere in grado di assistere le autorità nazionali nel reperire la necessaria documentazione dimostrativa) (Sez. 3, n. 50783 del 26/09/2019, Shi Lianfeng, Rv. 277688).

Questa Corte di legittimità ha altresì precisato (v. Sez. 3, n. 17686 del 14/12/2018, dep. 2019, Jia Linmel, Rv. 275932 in motivazione) che con la fattispecie criminosa di cui all’art. 515 cod. pen. non può essere confuso, quando si tratti come nella specie di materiale elettrico a bassa tensione, l’illecito privo di rilevanza penale disciplinato dall’art. 18 del decreto legislativo 86/2016

 ricorrente allorquando il contrassegno CE originario, e dunque non contraffatto, venga apposto, trattandosi di incombente assolto, secondo l’art. 13 del citato decreto, direttamente dal produttore o dal fabbricante, su prodotti che non presentano i requisiti previsti dalla normativa comunitaria o ad essa non si accompagni la certificazione di conformità, anch’essa a carico del fabbricante o produttore, o sia mancante o incompleta la documentazione tecnica di corredo e in ogni caso di irregolarità ed formale: in tal caso è previsto che il Ministero dello Sviluppo Economico adotti le adeguate misure per limitare o proibire la messa a disposizione sul mercato del materiale elettrico o per garantire che sia richiamato o ritirato dal mercato.

Nel caso in esame non vertendosi affatto nell’ipotesi di illegittima apposizione sulla merce di un marchio autentico, presupposto di applicabilità della normativa, emanata in attuazione della direttiva UE concernente l’armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alla messa a disposizione sul mercato del materiale elettrico a bassa tensione, ovverosia di non conformità formale alla procedura prevista per la sua apposizione, il delitto in contestazione deve ritenersi integrato con la sola detenzione di un prodotto che, in quanto recante un marchio contraffatto, sia diverso per origine, provenienza, qualità o quantità da quella dichiarata.

Invero il contrassegno CE apposto sui prodotti elettrici detenuti dall’imputato, in quanto falsamente indicatore di una merce non rispondente a quanto garantito in ordine ad origine e a provenienza, costituisce, in quanto lesivo del leale esercizio dell’attività commerciale, elemento costitutivo del reato.

Pacifico è infine il fatto che l’assenza del marchio CE (Comunità Europea) così come l’apposizione – laddove presente – di un marchio non conforme ai requisiti richiesti al fine di confermarne l’autenticità è elemento indicativo della contraffazione o dell’irregolare apposizione dello stesso, situazione anch’essa che sotto il profilo soggettivo del reato non poteva essere disconosciuta da un commerciante all’ingrosso quale è l’odierno imputato.

Le ulteriori argomentazioni contenute nel ricorso relative all’applicazione della Direttiva Comunitaria richiamata nel ricorso risultano inconferenti in questa sede.

3. Per le considerazioni or ora esposte, dunque, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile.

Alla inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento nonché, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità emergenti dal ricorso (Corte Cost. 13 giugno 2000, n.186) al versamento della somma ritenuta equa di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

Conclusione

Così deciso il 29 ottobre 2024.

Depositato in Cancelleria il 12 dicembre 2024.