CASSAZIONE CIVILE, sez. V, 07 giugno 2023, n. 16134
In tema di diritti doganali, ai fini della determinazione del valore in dogana di prodotti che siano stati fabbricati in base a modelli e con marchi oggetto di contratto di licenza e che siano importati dalla licenziataria, il corrispettivo dei diritti di licenza va aggiunto al valore di transazione, a norma dell’art. 32 del regolamento CEE del Consiglio 12 ottobre 1992, n. 2913, come attuato dagli artt. 157, 159 e 160 del regolamento CEE della Commissione 2 luglio 1993, n. 2454, qualora il titolare dei diritti immateriali sia dotato di poteri di controllo sulla scelta del produttore e sulla sua attività e sia il destinatario dei corrispettivi dei diritti di licenza.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MANZON Enrico – Presidente –
Dott. LA ROCCA Giovanni – Consigliere –
Dott. CARADONNA Lunella – rel. Consigliere –
Dott. HMELJAK Tania – Consigliere –
Dott. FEDERICI Francesco – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA
sul ricorso n. 2202/2019 proposto da:
Agenzia delle Dogane e dei Monopoli, nella persona del Direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici è elettivamente domiciliata, in Roma, via dei Portoghesi, n. 12.
– ricorrente –
contro
Giochi Preziosi Spa , nella persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dal Prof. Avv. Benedetto Santacroce, con domicilio eletto presso lo Studio Legale Tributario & Partners sito in Roma, via Giambattista Vico, n. 22, in virtù di procura speciale rilasciata a margine del controricorso.
– controricorrente –
e nei confronti di:
Sogemar Spa , nella persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dal Prof. Avv. Benedetto Santacroce, con domicilio eletto presso lo Studio Legale Tributario & Partners sito in Roma, via Giambattista Vico, n. 22, in virtù di procura speciale rilasciata a margine del controricorso.
– controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della LOMBARDIA n. 2620/2018, depositata in data 7 giugno 2018, non notificata;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 31 maggio 2023 dal Consigliere Lunella Caradonna.
Svolgimento del processo
CHE:
1. La società Giochi Preziosi Spa e la società Sogemar Spa avevano presentato ricorso avverso i provvedimenti di rettifica dell’accertamento nn. (Omissis) e (Omissis), in relazione alle operazioni di importazione dei mesi di aprile-giugno 2010 e dal 29 aprile 2010 all’8 luglio 2011, per l’errata dichiarazione del valore della merce importata in dogana, in quanto nella dichiarazione, fatta dalla Sogemar Spa , dichiarante per conto della Giochi Preziosi Spa , non era stato ricompreso il valore delle royalties.
2. La Commissione tributaria provinciale di Milano, respinte le eccezioni preliminari, aveva accolto il ricorso, ritenendo che i diritti di licenza non dovessero essere inclusi nel valore in dogana.
3. La Commissione tributaria regionale, adita da entrambe le parti, ha rigettato l’appello principale proposto dall’Agenzia delle Dogane e quelli incidentali delle società, riuniti, compensando le spese di lite.
4. I giudici di secondo grado, in particolare, dopo avere richiamato la disciplina della normativa comunitaria, ratione temporis applicabile, hanno affermato che l’asse portante della disciplina era il rapporto tra venditore ed acquirente e, senza alcun coinvolgimento del terzo produttore, se non in termini di tutela della qualità e che la sentenza resa dalla Suprema Corte di Cassazione n. 8473 del 6 aprile 2018, richiamata dall’Ufficio, riguardava solo il caso in cui tutte le società appartenevano allo stesso gruppo.
5. La Commissione tributaria regionale, poi, verificando la circostanza se nell’ambito dei rapporti contrattuali tra il venditore – o la persona ad esso legata – e l’acquirente, l’assolvimento del corrispettivo del diritto di licenza rivestisse un’importanza tale per il venditore che, in difetto, quest’ultimo non sarebbe stato disposto a vendere, all’esito dell’esame dei contratti di licenza stipulati dalla società Giochi Preziosi Spa , ha ritenuto che, nel caso in esame, non sussistevano le condizioni richieste dalla normativa comunitaria per computare, nel valore in dogana delle merci importate, l’importo dei diritti di licenza e che l’insussistenza delle condizioni di cui agli artt. 160 e 157 n. 2 del DAC, e di alcuna altra condizione che implicasse un controllo non di mera qualità, comportava che l’importo dei diritti pagati a titolo di royalties non dovesse essere computato nel “valore in dogana” dei beni importati.
6. L’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli ha proposto ricorso per cassazione con atto affidato a due motivi.
7. La società Giochi Preziosi Spa e la società Sogemar Spa resistono con rispettivi controricorsi.
Motivi della decisione
CHE:
1. Va rigettata, in via preliminare, l’eccezione di inammissibilità del ricorso per cassazione per violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, sollevata nel controricorso per la mancata indicazione dei fatti di causa nei due motivi di ricorso formulati dall’Agenzia delle Dogane e dei Monopoli.
1.1 Risulta rispettato, infatti, nel caso in esame, alle pagine 1 – 57 del ricorso, il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3), in ossequio del quale il ricorso per cassazione deve contenere la chiara esposizione dei fatti di causa, dalla quale devono risultare le posizioni processuali delle parti con l’indicazione degli atti con cui sono stati formulati “causa petendi” e “petitum”, nonchè degli argomenti dei giudici dei singoli gradi (Cass., 3 novembre 2020, n. 24432; Cass. 28 maggio 2018, n. 13312).
1.2 Questa Corte ha stabilito, inoltre, che per soddisfare il requisito imposto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, il ricorso per cassazione deve indicare, in modo chiaro ed esauriente, sia pure non analitico e particolareggiato, i fatti di causa da cui devono risultare le reciproche pretese delle parti con i presupposti di fatto e le ragioni di diritto che le giustificano in modo da consentire al giudice di legittimità di avere la completa cognizione della controversia e del suo oggetto senza dover ricorrere ad altre fonti e atti del processo e che deve escludersi che i motivi, essendo deputati ad esporre gli argomenti difensivi possano ritenersi funzionalmente idonei ad una precisa enucleazione dei fatti di causa (cfr. Cass., 3 novembre 2020, n. 24432).
1.3 Nemmeno è censurabile la tecnica della riproduzione fotostatica degli atti impugnati (verbale di accertamento e avviso di accertamento), usata, all’evidenza, per ragioni di economia processuale e di semplificazione, in funzione dell’accorciamento dei tempi di redazione del ricorso che, come già detto, contiene l’argomentazione dei fatti di causa nella parte iniziale dell’atto.
2. Il primo mezzo deduce la nullità della sentenza per la violazione e falsa applicazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 e la nullità della sentenza per la violazione e falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4. La sentenza impugnata presentava un evidente profilo di nullità essendo sorretta da motivazione del tutto apparente, stereotipata ed avulsa dalla prospettazione impugnatoria dell’Ufficio, in quanto non aveva esaminato i contratti delle società ZDF, Marvel, Starbright, TF1, Pokemon e Meg Mondo, nonostante gli stessi fossero stati esplicitamente citati nell’atto di appello ed esaminati dall’Ufficio nei propri atti sia in primo che in secondo grado; mentre dall’esame della sentenza emergeva che erano stati esaminati i contratti delle società Dreamworks e MGA, i quali tuttavia non erano in alcun modo parte della controversia. Inoltre, i contratti a nome della licenziante Disney erano stati considerati dai giudici di secondo grado i più “rilevanti” dal punto di vista degli importi, quando, avuto riguardo agli importi dovuti, nel complesso dei due verbali, maggiormente rilevanti risultavano essere i contratti delle società Sky/Turner, Sanrio ed RTI. Ancora, la Commissione tributaria regionale, travalicando il contenuto del p.v.c. e del successivo atto di recupero, discostandosene, aveva violato l’art. 112 c.p.c. ed il principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, avendo l’Ufficio impostato il recupero a tassazione sullo scrutinio puntuale di alcuni piuttosto che di altri contratti.
2.1 In di Spa rte il profilo della contraddittorietà della denuncia, in un unico motivo, dei due distinti vizi di omessa pronuncia e di omessa motivazione, implicando il primo completa omissione del provvedimento indispensabile per la soluzione del caso concreto e presupponendo il secondo l’esame della questione oggetto di doglianza da parte del giudice di merito, seppure se ne lamenti la soluzione in modo giuridicamente non corretto ovvero senza adeguata giustificazione (Cass., 5 marzo 2021, n. 6150; Cass., 28 giugno 2018, n. 17141 del 28/6/2018; Cass., 18 giugno 2014, n. 13866; Cass. 17 luglio 2007, n. 15882), il motivo è infondato, dovendosi richiamare il consolidato insegnamento della giurisprudenza di questa Corte secondo cui la mancanza di motivazione, quale causa di nullità della sentenza, va apprezzata, tanto nei casi di sua radicale carenza, quanto nelle evenienze in cui la stessa si dipani in forme del tutto inidonee a rivelare la ratio decidendi posta a fondamento dell’atto, poichè intessuta di argomentazioni fra loro logicamente inconciliabili, perplesse od obiettivamente incomprensibili, restando, in ogni caso, esclusa la rilevanza di un’eventuale verifica condotta sulla sufficienza della motivazione medesima rispetto ai contenuti delle risultanze probatorie (Cass., Sez. U., 27 dicembre 2019, n. 34476).
2.2 Inoltre, la motivazione è solo apparente, e la sentenza è nulla perchè affetta da error in procedendo, quando, benchè graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perchè recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all’interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (Cass., 5 luglio 2022, n. 21302).
2.3 Nel caso in esame, la Commissione tributaria regionale ha rigettato l’appello principale proposto dall’Agenzia delle Dogane ritenendo che non sussistevano le condizioni richieste dalla normativa comunitaria per computare, nel valore in dogana delle merci importate, l’importo dei diritti di licenza e che l’inesistenza delle condizioni di cui agli artt. 160 e 157 n. 2 del DAC, e di alcuna altra condizione che implicasse un controllo non di mera qualità, comportava che l’importo dei diritti pagati a titolo di royalties non doveva essere computato nel “valore in dogana” dei beni importati.
2.4 Risulta evidente, pertanto, che la decisione impugnata assolve in misura adeguata al requisito di contenuto richiesto dalle disposizioni di legge di cui il ricorso lamenta la violazione, attesa l’esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, sufficiente ad evidenziare il percorso argomentativo della pronuncia giudiziale, funzionale alla sua comprensione e alla sua eventuale verifica in sede di impugnazione, dal che non è possibile assumere che un convincimento manchi o che ne sia inintelligibile il fondamento logico.
3. Il secondo mezzo deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 143, art. 157, comma 2, artt. 150 e 160 delle DAC e la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e ss. c.c. e dei canoni di ermeneutica contrattuale, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. La Commissione tributaria regionale, laddove aveva messo in evidenza l’importanza del rapporto tra venditore ed acquirente, senza alcun coinvolgimento del terzo produttore, se non in termini di tutela della qualità ed aveva affermato che la sentenza resa dalla Corte di Cassazione n. 8473 del 6 aprile 2018, riguardava solo il caso in cui tutte le società appartenevano allo stesso gruppo, non aveva correttamente provveduto ad inquadrare i fatti così come accertati nel p.v.c. e correttamente documentati dall’Ufficio nel corso dei giudizi di merito. In particolare, i criteri ermeneutici utilizzati dal giudice del gravame per ricostruire la fattispecie in esame e per interpretare le relative clausole contrattuali, contrastavano con quelli individuati dalla sentenza n. 8473/2018 della Suprema Corte, i cui principi erano stati poi ripresi nella ordinanza n. 23289/2018. Infatti, le clausole contrattuali evidenziate dall’Ufficio nel gravame rispondevano proprio all’esigenza delle licenzianti di realizzare profitto dalla cessione del diritto all’uso del proprio marchio, ma soprattutto erano dirette a tutelare l’immagine del marchio stesso attraverso il controllo, indiretto ma pregnante, di ogni aspetto della fase produttiva. Qualora si facesse applicazione dei criteri indicati nelle pronunce sopra indicate, era possibile pervenire a una conclusione opposta rispetto a quella della sentenza impugnata e affermare la sussistenza di un controllo di fatto delle licenzianti sul produttore. Ciò era reso evidente qualora si considerassero le clausole contrattuali elencate dall’Ufficio alle pagg. 6 e segg. del gravame che erano espressione chiara di un controllo di natura non meramente qualitativa ma piuttosto gestionale tra licenziante e produttore, prevedendo addirittura, tra le molte altre cose, la necessità dell’autorizzazione della licenziante per la scelta del produttore da parte della licenziataria. La sentenza impugnata era errata anche nella parte in cui aveva ritenuto che la sentenza n. 8473/2018 riguardava solo il caso in cui tutte le società interessate appartenevano allo stesso gruppo, in quanto la sentenza citata, al contrario, poneva dei criteri interpretativi generali che erano insiti nel rapporto di licenza, diretto a tutelare l’immagine del marchio stesso attraverso il controllo di ogni aspetto della fase produttiva, nè il principio di diritto statuito dalla Suprema Corte e ribadito anche nelle ordinanze successive poneva eccezioni o riserve di tipo soggettivo, applicandosi dunque sia all’ipotesi in cui licenziante e licenziataria appartenessero allo stesso gruppo societario, sia all’ipotesi in cui essi fossero due soggetti distinti.
3.1 Il motivo è, innanzi tutto, ammissibile, in quanto l’Agenzia ricorrente con la censura formulata, non contesta la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito, nè, tanto meno, l’interpretazione delle clausole degli accordi di licenza dagli stessi offerta, ma assume che tali fatti e, in particolare, il contenuto di tali accordi determinerebbero l’applicazione della fattispecie astratta invocata, rappresentata dalla inclusione del valore delle royalties pagate alla licenziante nel valore delle merci importate, ai fini della determinazione dell’importo dei diritti doganali dovuti. La doglianza, investe, dunque, la individuazione che la Commissione tributaria regionale ha compiuto della norma applicata ai fatti per come accertati, riconducibile all’ipotesi di falsa applicazione della legge, usualmente definita “vizio di sussunzione”.
3.2 Le Sezioni Unite di questa Corte, in proposito, hanno affermato che il controllo di legittimità non si esaurisce in una verifica dell’attività ermeneutica diretta a ricostruire la portata precettiva di una norma, ma il vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 comprende anche l’errore di sussunzione del fatto nell’ipotesi normativa; tale vizio si riferisce ad un momento successivo a quello concernente la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto ed investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nell’affermazione erronea dell’esistenza o dell’insussistenza di una norma, ovvero della attribuzione ad essa di un contenuto che non ha riguardo alla fattispecie in essa delineata (violazione di legge in senso proprio); la falsa applicazione consiste invece nell’assumere la fattispecie concreta sotto una norma che non le si addice, perchè la fattispecie astratta da essa prevista, pur rettamente individuata e interpretata, non è idonea a regolarla (Cass., Sez. U., 18 gennaio 2001, n. 5 e, successivamente, Cass., 26 settembre 2005, n. 18782; Cass., 28 novembre 2007, n. 24756; Cass., 29 agosto 2019, n. 21772).
3.3 Questa Corte di legittimità ha da tempo individuato nelle due distinte categorie della violazione di legge e falsa applicazione di legge, richiamate a definizione del vizio di cui all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, i due momenti in cui si articola il giudizio di diritto lasciando al primo la ricerca e l’interpretazione della norma ritenuta regolatrice del caso concreto ed al secondo l’applicazione della norma stessa una volta che sia stata correttamente individuata ed interpretata (Cass., 13 ottobre 2017, n. 24155). Con l’ulteriore precisazione che il vizio di violazione di legge investe immediatamente la regola di diritto, risolvendosi nella negazione o affermazione erronea della esistenza o inesistenza di una norma, ovvero nell’attribuzione ad essa di un contenuto che non possiede, avuto riguardo alla fattispecie in essa delineata e che il vizio di falsa applicazione di legge consiste, o nell’assumere la fattispecie concreta giudicata sotto una norma che non le si addice, perchè la fattispecie astratta da essa prevista, pur rettamente individuata e interpretata, non è idonea a regolarla, o nel trarre dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, conseguenze giuridiche che contraddicano la pur corretta sua interpretazione (Cass., 5 febbraio 2019, n. 3340; Cass., 30 aprile 2018, n. 10320).
3.4 Non rientra, quindi, nell’ambito applicativo dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa che è, invece, esterna all’esatta interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, sottratta perciò al sindacato di legittimità (Cass., 14 gennaio 2019, n. 640).
3.5 Per converso, fa parte del sindacato di legittimità secondo il paradigma della “falsa applicazione di norme di diritto” il controllare se la fattispecie concreta (assunta così come ricostruita dal giudice di merito e, dunque, senza che si debba procedere ad una valutazione diretta a verificarne l’esattezza e meno che mai ad una diversa valutazione e ricostruzione o apprezzamento ricostruttivo) è stata ricondotta a ragione o a torto alla fattispecie giuridica astratta individuata dal giudice di merito come idonea a dettarne la disciplina oppure al contrario doveva essere ricondotta ad altra fattispecie giuridica oppure ancora era riconducibile ad una fattispecie giuridica astratta, sì da non rilevare in iure, oppure ancora non è stata erroneamente ricondotta ad una certa fattispecie giuridica cui invece doveva esserlo, essendosi il giudice di merito rifiutato expressis verbis di farlo (Cass. 31 maggio 2018, n. 13747).
3.6 Non è, dunque, precluso al giudice di legittimità stabilire se il giudice di merito abbia correttamente sussunto sotto l’appropriata previsione normativa i fatti da lui accertati – ferma restando l’insindacabilità di questi ultimi e l’impossibilità di ricostruirli in modo diverso – e l’errore eventualmente commesso non è un errore di accertamento, ma un errore di giudizio, consistente nello scegliere in modo non corretto quella, tra le tante norme dell’ordinamento, della quale deve farsi applicazione al caso concreto (cfr. Cass., 31 ottobre 2019, n. 28080, peraltro in analoga fattispecie vertente tra le stesse parti; Cass., 18 gennaio 2018, n. 1106).
4. Passando all’esame della censura, il motivo è fondato.
4.1 L’art. 29 del Regolamento (CEE) n. 2913/92, del Consiglio del 12 ottobre 1992, che ha istituito il Codice doganale comunitario (abrogato dall’art. 186 del regolamento (CE) n. 450/2008, con la decorrenza prevista dall’art. 188 del medesimo regolamento 450/2008; e dall’art. 286 del regolamento (UE) n. 952/2013, con la decorrenza prevista dall’art. 288 del medesimo regolamento n. 952/2013), applicabile alla presente fattispecie ratione temporis, stabilisce che “il valore in dogana delle merci importate è, di regola, il valore di transazione, ossia il prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci quando siano vendute per l’esportazione a destinazione del territorio doganale dell’Unione, fatte salve, previa eventuale rettifica effettuata conformemente agli artt. 32 e 33”. L’art. 32, nell’individuare gli elementi che devono essere aggiunti al prezzo effettivamente pagato per determinare il valore in dogana, attribuisce rilevanza, tra gli altri, alla lett. c), ai “corrispettivi e i diritti di licenza relativi alle merci da valutare, che il compratore è tenuto a pagare, direttamente o indirettamente, come condizione della vendita delle merci da valutare, nella misura in cui detti corrispettivi e diritti di licenza non sono stati inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare”.
L’art. 157, par. 1, Reg. (CEE) n. 2454/93 (che fissa talune disposizioni d’applicazione del regolamento che istituisce il codice doganale comunitario), chiarisce, poi, che per “corrispettivi e diritti di licenza”, ai fini dell’art. 32, par. 1, lett. c), del codice doganale comunitario deve intendersi, in particolare, quanto versato per l’utilizzo di diritti inerenti alla fabbricazione delle merci importate, alla vendita per l’esportazione di tale merce e all’impiego e alla rivendita delle stesse; il successivo par. 2 del medesimo articolo precisa che al prezzo effettivamente pagato o da pagare devono essere aggiunti i corrispettivi o diritti di licenza soltanto nel caso in cui tale pagamento, da un lato, si riferisca alle merci oggetto della valutazione e, dall’altro, costituisca una condizione di vendita di tali merci; l’art. 159, poi, stabilisce che al prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci importate va aggiunto un corrispettivo o diritto di licenza relativo al diritto di utilizzare un marchio commerciale o di fabbrica soltanto se il corrispettivo o il diritto di licenza si riferisce a merci rivendute tal quali o formanti oggetto unicamente di lavorazioni secondarie successivamente all’importazione, le merci sono commercializzate con il marchio di fabbrica, apposto prima o dopo l’importazione, per il quale si paga il corrispettivo o il diritto di licenza, e l’acquirente non è libero di ottenere tali merci da altri fornitori non legati al venditore.
4.2 La Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha affermato che le rettifiche del valore in dogana devono essere effettuate conformemente all’art. 32 e che, comunque, il valore doganale deve riflettere il valore economico reale della merce importata e, quindi, considerarne tutti i fattori economicamente rilevanti (cfr.; Corte UE, 20 dicembre 2017, Hamamatsu; Corte UE, 21 gennaio 2016, Stretinskis; Corte UE, 12 dicembre 2013, Christodoulou).
4.3 La Corte di giustizia, in particolare, nella sentenza del 9 marzo 2017, GE Healthcare, ha precisato che:
-) la rettifica prevista dall’art. 32, par. 1, lett. c), del codice doganale comunitario si applica quando ricorrono le seguenti tre condizioni cumulative: in primo luogo, che i corrispettivi o i diritti di licenza non siano stati inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare; in secondo luogo, che essi si riferiscano alle merci da valutare; e, in terzo luogo, che l’acquirente sia tenuto a versare tali corrispettivi o diritti di licenza come condizione della vendita delle merci da valutare;
-) i corrispettivi o i diritti di licenza assumono rilevanza quale base imponibile e vanno considerati come “relativi alle merci da valutare” anche se non determinati al momento della conclusione del contratto di licenza o dell’insorgenza dell’obbligazione doganale;
-) la nozione “condizione di vendita” sta ad indicare la situazione in cui, nell’ambito dei rapporti contrattuali tra il venditore – o la persona ad esso legata – e l’acquirente, l’assolvimento del corrispettivo o del diritto di licenza rivesta un’importanza tale per il venditore che, in difetto, quest’ultimo non sarebbe disposto a vendere, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare;
-) qualora il beneficiario delle royalties sia soggetto diverso dal venditore, occorre “verificare se la persona legata al venditore eserciti un controllo, sul medesimo o sull’acquirente, tale da poter garantire che l’importazione delle merci, assoggettate al suo diritto di licenza, sia subordinata al versamento, a suo favore, del corrispettivo o del diritto di licenza ad esse afferente”, ciò in coerenza con l’art. 160, Reg. (CEE) n. 2454/93, secondo cui il pagamento delle royalties costituisce una condizione della vendita quando il venditore o una persona ad esso legata chiede all’acquirente di effettuare tale pagamento;
-) i corrispettivi e i diritti di licenza (cd. royalties) dovuti dall’importatore in relazione alle merci importate costituisce una “condizione della vendita”, ai fini della rilevanza degli stessi quale componente del valore della merce in dogana di cui all’art. 32 del codice doganale comunitario e, conseguentemente, dell’applicazione del potere di rettifica dell’Ufficio, non solo quando l’operazione è subordinata espressamente, nelle clausole dell’accordo di licenza, all’assolvimento di tali pagamenti, ma anche quando tale rapporto di subordinazione si evince dal tenore delle clausole contrattuali che interessano anche diversi soggetti che possono intervenire nell’operazione medesima, quando, come nel caso in esame, il venditore è soggetto diverso dall’avente diritto alla percezione delle royalties.
5. Con riferimento alla nozione di controllo utilizzata nella richiamata pronuncia della Corte di Giustizia e presa in considerazione dall’art. 143, par. 1, lett. e), Reg. (CEE) n. 2454/93, questa Corte nell’ordinanza 31 ottobre 2019, n. 28080, che va richiamata nelle sue argomentazioni, del tutto condivise da questo Collegio, ha osservato;
che “L’allegato 23 a tale Regolamento chiarisce che “si considera che una persona ne controlli un’altra quando la prima sia in grado di esercitare, di diritto o di fatto, un potere di costrizione o di orientamento sulla seconda”; il controllo è dunque inteso in un’accezione ampia: da un lato, sul piano della fattispecie, perchè è assunto per la sua rilevanza anche di fatto; dall’altro, su quello degli effetti, perchè ci si contenta del potere di “orientamento” del soggetto controllato; quest’accezione ampia e necessariamente casistica, d’altronde, ben si coordina con la nozione economica del valore doganale, la quale si traduce nel rilievo, anch’esso di fatto, degli elementi che definiscono il valore economico del bene; al fine della individuazione del contenuto della nozione di “controllo” utili indicatori possono essere tratti dall’esemplificazione presente nel Commento n. 11 del Comitato del codice doganale (Sezione del valore in dogana) contenuto nel documento (Omissis), nella versione italiana del 2007, sull’applicazione dell’art. 32, paragrafo 1, lett. c), del codice doganale; tale documento è ormai parte dell’acquis communautaire con valore di soft law, come riconosciuto anche dalla menzionata pronuncia della Corte di Giustizia secondo cui le conclusioni del predetto Comitato “sebbene non giuridicamente cogenti, costituiscono tuttavia strumenti importanti per garantire un’uniforme applicazione del codice doganale da parte delle autorità doganali degli Stati membri e possono, quindi, essere di per sè considerate strumenti validi per l’interpretazione di detto codice”; ebbene, il documento annovera, tra gli elementi utili per determinare la presenza di un controllo, tra gli altri, i seguenti: il licenziante sceglie il produttore e lo impone all’acquirente; il licenziante esercita, direttamente o indirettamente, un controllo di fatto sulla produzione (per quanto attiene ai centri di produzione e/o ai metodi di produzione); il licenziante esercita, direttamente o indirettamente, un controllo di fatto sulla logistica e sulla consegna delle merci all’acquirente; il licenziante decide a chi il produttore può vendere le merci o impone delle restrizioni per quanto concerne i potenziali acquirenti; il licenziante fissa le condizioni del prezzo al quale il produttore/venditore vende le proprie merci o il prezzo al quale l’importatore/l’acquirente rivende le merci; il licenziante sceglie i metodi di produzione da utilizzare/fornisce dei modelli ecc.; il licenziante sceglie/limita i fornitori dei materiali/componenti; il licenziante limita le quantità che il produttore può produrre; il licenziante non autorizza l’acquirente a comprare direttamente dal produttore, ma attraverso il titolare del marchio (licenziante) che potrebbe agire anche come agente di acquisto dell’importatore; il produttore non è autorizzato a produrre prodotti concorrenti (privi di licenza) in assenza del consenso del licenziante; le merci fabbricate sono specifiche del licenziante (cioè nella loro concezione/nel loro design e con riguardo al marchio di fabbrica); le caratteristiche delle merci e la tecnologia utilizzata sono definite dal licenziante; come precisato dallo stesso Commento n. 11, nessuno di questi elementi costituisce di per sè una condizione di vendita, tuttavia una combinazione di questi elementi dimostra che esiste quel “potere di orientamento” della licenziante sulla venditrice, tale per cui il pagamento dei diritti di licenza costituisce una condizione di vendita; peraltro, possono esistere anche altri elementi, diversi da quelli presi in considerazione dal Commento n. 11, rivelatori dell’esistenza di una siffatta relazione tra le parti; non risulta rilevante, nè dirimente, la circostanza relativa alla soppressione del richiamato documento, in quanto il documento TAXUD/B4/2016, che fornisce linee orientative più sintetiche (ma non meno lineari) e si correla al dettato del nuovo codice doganale (Regolamento n. 952/2013/UE) e al corrispondente Regolamento di esecuzione (Regolamento n. 2015/2447/UE); in proposito, si osserva che l’art. 70 del vigente codice doganale comunitario, pone, al comma 1, la regola generale per il valore in dogana è quello di transazione, ossia “il prezzo effettivamente pagato o da pagare per le merci”, mentre il comma successivo dispone che questo “è il pagamento totale che è stato o deve essere effettuato dal compratore nei confronti del venditore, o dal compratore a una terza parte, a beneficio del venditore, per le merci importate, e comprende tutti i pagamenti che sono stati o devono essere effettuati, come condizione della vendita delle merci importate”; con riguardo alla questione in esame, il successivo art. 71 individua tra gli elementi da includere nel valore di transazione “c) i corrispettivi e i diritti di licenza relativi alle merci da valutare, che il compratore, direttamente o indirettamente, è tenuto a pagare come condizione per la vendita delle merci da valutare, nella misura in cui detti corrispettivi e diritti di licenza non siano stati inclusi nel prezzo effettivamente pagato o da pagare”; l’art. 136 del regolamento di esecuzione, precisa, poi, che “I corrispettivi e i diritti di licenza sono considerati pagati come condizione della vendita delle merci importate quando è soddisfatta una delle seguenti condizioni: a) il venditore o una persona ad esso collegata chiede all’acquirente di effettuare tale pagamento; b) il pagamento da parte dell’acquirente è effettuato per soddisfare un obbligo del venditore, conformemente agli obblighi contrattuali; c) le merci non possono essere vendute all’acquirente o da questo acquistate senza versamento dei corrispettivi o dei diritti di licenza a un licenziante” (comma 4); la nuova disciplina consente, pertanto, di includere le royalties nel valore delle merci anche in assenza di un collegamento tra il venditore e il licenziante, escludendo che tale circostanza abbia valore essenziale; in tal senso si esprime il TAXUD/B4/2016, secondo cui “il criterio applicabile è capire se il venditore può vendere o se il compratore può comprare le merci senza pagare royalties o diritti di licenza. La condizione può essere implicita o esplicita. In alcuni casi sarà specificato nell’accordo di licenza se la vendita delle merci importate è subordinato al pagamento di un corrispettivo o di un diritto di licenza. Tuttavia, non è richiesto che ciò debba essere precisato negli accordi”; quanto alla nozione di “controllo”, va rilevato che la stessa conserva importanza, venendo presa in considerazione dall’art. 127, Reg. (UE) n. 2015/2447, secondo la quale, ai fini della determinazione del valore in dogana, “si ritiene che una parte controlli l’altra quando la prima è in grado, di diritto o di fatto, di imporre orientamenti alla seconda”; una siffatta locuzione è più generica ed ampia di quella precedente e non richiede necessariamente che il potere di orientamento investa la totalità delle attività del soggetto controllato; è, dunque, evidente che il documento TAXUD -800-2002 mantiene inalterato il suo valore orientativo, sia perchè riferito alla disciplina contenuta nel codice doganale comunitario applicabile ratione temporis, sia perchè la normativa successivamente introdotta fornisce una regolamentazione della materia che privilegia in misura più incisiva la rilevanza delle royalties pagate ai fini della determinazione del valore delle merci, sia perchè anche il nuovo documento TAXUD del 2016 non si discosta dalle linee generali fondamentali già affermate” (Cass., 31 ottobre 2019, n. 28080, in motivazione).
5.1 Le medesime argomentazioni sono state già espresse da questa Corte che, in proposito, ha affermato che “In tema di diritti doganali, ai fini della determinazione del valore in dogana di prodotti che siano stati fabbricati in base a modelli e con marchi oggetto di contratto di licenza e che siano importati dalla licenziataria, il corrispettivo dei diritti di licenza va aggiunto al valore di transazione, a norma dell’art. 32 del regolamento CEE del Consiglio 12 ottobre 1992, n. 2913, come attuato dagli artt. 157, 159 e 160 del regolamento CEE della Commissione 2 luglio 1993, n. 2454, qualora il titolare dei diritti immateriali sia dotato di poteri di controllo sulla scelta del produttore e sulla sua attività e sia il destinatario dei corrispettivi dei diritti di licenza” (Cass., 10 ottobre 2018, n. 24996; Cass., 6 aprile 2018, n. 8473).
6. Ciò posto, nel caso in esame, la sentenza impugnata ha escluso la sussistenza delle condizioni richieste dalla normativa comunitaria per computare, nel valore in dogana delle merci importate, l’importo dei diritti di licenza e, in particolare, di condizioni implicanti un controllo dei licenzianti sulla produzione; i giudici di secondo grado, al riguardo, hanno affermato che l’unico controllo comune in tutti i contratti era il controllo di qualità; che la società Giochi Preziosi Spa aveva avuto dalle licenzianti la disponibilità dei diversi marchi, da riprodurre sui propri prodotti e che i licenzianti non imponevano i produttori terzi alla licenziataria, nè ne indirizzavano la scelta, nè imponevano l’utilizzo di determinati materiali o particolari componenti, così che la licenziataria restava libera di scegliere il produttore terzo senza alcun vincolo, se non quello, della necessaria “qualità” della merce prodotta e commercializzata; che si trattava, dunque, di un controllo sulle merci prodotte che non incideva minimamente sulla libertà di scelta del licenziatario nei confronti del produttore, ovvero di un controllo della qualità della merce prodotta e del rispetto da parte dei fabbricanti di determinate condizioni di lavoro e non certo di un controllo gestionale delle società stesse; che, più specificamente, da un lato vi era il contratto di licenza, e dall’altro un contratto con il produttore materiale del prodotto, sicchè per il produttore materiale del prodotto, il pagamento delle Royalties non aveva alcuna importanza, in quanto tale elemento non intersecava il rapporto di produzione e pagamento della merce da lui prodotta, dato che il fabbricante/venditore aveva ricevuto dal committente un ordine di realizzare prodotti le cui caratteristiche erano già nella disponibilità del committente stesso e ciò in virtù di pregressi accordi tra l’ordinante acquirente ed il titolare del diritto sul bene; in conclusione, le norme contrattuali avevano messo in evidenza che i rapporti di controllo legavano unicamente il licenziante al licenziatario e non coinvolgevano il terzo produttore, nè sussistevano clausole che facessero ritenere che il terzo produttore non sarebbe stato disposto a vendere se la licenziataria non avesse pagato i diritti di licenza alla licenziante.
6.1 La Commissione tributaria regionale, sulla base degli elementi di fatto emersi nella vicenda in esame ha, dunque, osservato che il caso in esame presentava delle peculiarità che lo differenziano rispetto a quello “tipico” normato, dato che: il licenziante non sceglieva il produttore e non lo imponeva all’acquirente; non esercitava un controllo di fatto, nè direttamente nè indirettamente, sulla produzione, la logistica o la consegna delle merci, in quanto esisteva un contratto diretto di produzione tra il licenziante ed il venditore; non decideva a chi il produttore poteva vendere le merci od imponeva delle restrizioni per quanto concerneva i potenziali acquirenti; fissava le condizioni di prezzo al quale il produttore/venditore vendeva le proprie merci od il prezzo al quale l’importatore/acquirente rivendeva le merci; non sceglieva i metodi di produzione da utilizzare; non forniva dei modelli che venivano scelti dalla società Giochi Preziosi Spa ; sceglieva i fornitori dei materiali e limitava i componenti; non aveva alcun potere di limitare le quantità che il produttore poteva produrre; non autorizzava l’acquirente a comprare direttamente dal produttore ma attraverso il titolare del marchio (licenziante) che poteva agire anche come agente di acquisto dell’importatore, anzi la Giochi Preziosi acquistava esclusivamente da produttori terzi.
6.2 In ultimo, i giudici di secondo grado, osservavano che poteva essere considerato un elemento di controllo, l’unico, il punto relativo alla contabilità, previsto in alcuni dei contratti, nel senso che il licenziante aveva il diritto di esaminare la contabilità del produttore o dell’acquirente, al fine di prevenire possibili contraffazioni, ma che anche volendo considerare questo un elemento di controllo, essendo l’unico non era sufficiente, poichè il citato Commento n. 11, aveva elencato una serie di indicatori da valutare per stabilire se esisteva un controllo di fatto che possa comportare l’inclusione o meno della royalty nel valore in dogana, che dovevano essere considerati in combinazione fra loro.
6.3 Orbene, ritiene questo Collegio, conformemente a quanto già espresso da questa Corte nell’ordinanza già richiamata n. 28080 del 31 ottobre 2019, che la Commissione tributaria regionale non abbia fatto corretta applicazione dei principi normativi, come interpretati dalla giurisprudenza unionale e da quella di legittimità; ed invero, deve precisarsi che le facoltà riconosciute alle licenzianti di preservare il carattere distintivo e il valore commerciale del marchio, in cui si esprime “il controllo… finalizzato alla protezione dell’immagine del licenziante nei confronti dei consumatori finali”, costituiscono elementi che, seppure non espressamente presi in esame del Commento n. 11 al Codice doganale comunitario, offrono adeguata dimostrazione dell’esistenza di un potere di orientamento del licenziante sul produttore/venditore, in relazione alla loro incisività nell’indirizzamento dell’attività di produzione e idoneità a conformare l’attività del produttore in funzione della tutela del marchio da perdite di immagine connesse a modalità di produzione non coerenti con il livello qualitativo dei prodotti che il pubblico è solito associare al marchio che li contraddistingue; di conseguenza, quel che rileva non è un controllo di mera qualità del prodotto, come tale non implicante necessariamente – secondo quanto osservato dal menzionato Commento n. 11 – l’esistenza di un controllo, sia pure indiretto, sui fornitori, quanto un controllo sullo svolgimento dell’attività produttiva; la Commissione tributaria regionale, pertanto, richiamando specificamente e partitamente gli indicatori di cui al Commento n. 11 al Codice doganale comunitario, ha omesso di considerare che una situazione di controllo – intesa, come evidenziato in precedenza, quale possibilità di esercizio, di diritto o di fatto, di un potere di costrizione o di orientamento – può rinvenirsi anche qualora al licenziante sia riconosciuto il diritto di esigere il soddisfacimento dei livelli di qualità normalmente associati ai prodotti commercializzati con il marchio concesso in licenza. Peraltro, come rileva dall’estratto del verbale dell’11 novembre 2009, trascritto nel ricorso per cassazione, dal bilancio consolidato del gruppo Giochi Preziosi al 30 giugno 2008 risultava che la società Preziosi H.K. Ltd era partecipata al 99% dalla società Giochi Preziosi Lux S.A., che a sua volta era partecipata al 100% dalla Giochi Preziosi Spa e che la società Giochi Preziosi Spa corrispondeva i diritti di licenza ai diversi licenzianti, calcolati sia in percentuale sulle vendite nette dei prodotti soggetti a licenza, sia sul valore delle merci acquistate e che il pagamento del diritto di licenza costituiva una condizione del contratto di compravendita tra acquirente e venditore; inoltre, non possono non rilevare, come affermato da questa Corte nella sentenza n. 24996 del 2018, le regole di esperienza proprie del rapporto di licenza: “Questo rapporto è difatti di norma connotato da penetranti poteri di controllo del titolare del marchio sul licenziatario al fine di garantire che tutti i prodotti contrassegnati dal medesimo segno distintivo siano omogenei e funzionali (come si evince, d’altronde, anche dall’art. 8, sia pure di natura dispositiva, della direttiva n. 2008/95/CE sul ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di marchi d’impresa, ratione temporis applicabile). Il contratto di licenza, che pur sempre mira a salvaguardare le prerogative del licenziante, solitamente comporta di per sè che i terzi individuati per la produzione non possano immettere liberamente i prodotti sul mercato, ma debbano ritrasferirli ai distributori designati dal licenziante, ossia ai licenziatari, i quali corrispondono a costui i diritti di licenza. Risponde quindi a una massima di comune esperienza, l’applicazione della quale non è contrastata, nel caso in esame, da elementi di segno contrario, che il titolare del marchio e dei modelli riesca a controllare tutta la filiera produttiva e distributiva, massimizzando il profitto che ne deriva” (Cass., 10 ottobre 2018, n. 24996, in motivazione). La sentenza impugnata deve, dunque, essere cassata e la causa va rinviata alla Corte di giustizia tributaria di secondo grado della Lombardia che dovrà operare la verifica sulle operazioni di importazioni in esame, al fine di accertare se, alla luce dei parametri sopra indicati, la società contribuente, ha un potere di controllo, anche indiretto, in modo tale da incidere, in maniera determinante, non solo sulla qualità del prodotto, ma sulla intera produzione, sia in virtù delle pattuizioni del contratto di licenza sia per mezzo dell’operato dell’agente di vendita e del successivo accordo di fabbricazione.
7. Per quanto esposto, va accolto il secondo motivo di ricorso e va rigettato il primo motivo; la sentenza impugnata va cassata, in relazione al motivo accolto, e la causa va rinviata alla Corte di giustizia di secondo grado della Lombardia, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte accoglie il secondo motivo del ricorso e rigetta il primo motivo; cassa la sentenza impugnata, in relazione al motivo accolto, e rinvia la causa alla Corte di giustizia di secondo grado della Lombardia, in diversa composizione, anche per la determinazione delle spese del giudizio di legittimità.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 31 maggio 2023.
Depositato in Cancelleria il 7 giugno 2023